Quella del 22 maggio 2010 è una data impressa nel cuore di ogni interista. Quel giorno infatti, l’Inter tornò a vincere quella Champions League inseguita ormai da 45 anni ed al contempo divenne la prima squadra nella storia del calcio italiano a completare il ‘Triplete’.
Tra i grandi protagonisti di quell’impresa non si può non menzionare José Mourinho che, a 10 anni esatti da quella che è stata una delle notti più importanti della sua carriera, in un’intervista rilasciata a ‘La Gazzetta dello Sport’ ha ricordato quanto straordinario sia stato il suo rapporto con l’intero mondo nerazzurro. “Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Madrid ero più felice di vivere la felicità degli altri – da Moratti all’ultimo dei magazzinieri – della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importante di te e passi al secondo posto”.
Quell’Inter, nell’arco di pochissimi giorni, si trovò a giocare tre partite decisive. “Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare «Fermate la musica o ce ne andiamo. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la Grande Finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45’, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più”. Avevo detto: «Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima». Quel giorno mi dissi: «Mai più».
La stagione dell’Inter non era iniziata benissimo, visto che a fine luglio si consumò l’addio di Ibrahimovic.
“Ma il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: «Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona», lui da superprofessionista quale è giocò 45’, ma poi nello spogliatoio disse: «Vado, devo vincere la Champions». I miei assistenti italiani erano morti – «Senza di lui sarà impossibile vincere» – i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: «Magari tu vai e la vinciamo noi». Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: «Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o». Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra”.
Un ruolo fondamentale in quell’Inter lo giocò Wesley Sneijder: “Diversità tattica. Serviva qualcuno che legasse il centrocampo a due attaccanti dalla mobilità tremenda, lui era perfetto. A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti». Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: «Serve Wes, Wes, Wes”.
Il tecnico lusitano ha ricordato Barcellona-Inter, una partita che i nerazzurri, complice anche l’espulsione di Thiago Motta, persero, ma quel risultato non impedì loro di volare in finale di Champions: “Quando Busquets cadde quasi tramortito io ero in diagonale fra la nostra panchina, la loro e il punto dove Thiago Motta venne espulso. Con la coda dell’occhio vedo la panchina del Barcellona che festeggia come se avessero già vinto, Guardiola che chiama Ibra per parlare di tattica: tattica in 11 contro 10… Gli dissi solo: «Non fare festa, questa partita non è finita”.
Dopo il trionfo con il Bayern, Mourinho decise di non tornare a Milano con la squadra: “Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato «José resta con noi», forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, «Non andare”». Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo – e sono ancora l’unico, fra gli allenatori – ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: «Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro»”.
Lo Special One ha svelato quando disse a Moratti che avrebbe lasciato l’Inter.
“Avevo deciso dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: «Dopo questo, hai il diritto di andare». Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid”.
L’ultima immagine del Mourinho interista è quella nella quale lo si vede abbracciato ad un Materazzi in lacrime: “Marco era il simbolo della tristezza di tutti noi, e di quello che deve essere un giocatore di squadra. Quando la squadra aveva bisogno di lui – Chelsea, Roma, Siena – lui era lì. Io sono cattolico e credo a queste cose: forse è stato Dio a metterlo lì contro quel muro, come ultimo giocatore che ho visto: con lui, abbracciavo tutti i miei giocatori. E dico una cosa: mi fa molto strano che oggi uno come lui – da allenatore, direttore, magazziniere, autista, non so – non sia all’Inter”.
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