Oggi le pratiche funerarie rappresentano un fatto privato, spesso vissuto individualmente e con distacco. Non così accadeva nella Sardegna di un tempo, tra il XIX e il XX secolo.
Nel Sulcis la perdita di un famigliare era vissuta come un momento di coinvolgimento per l’intera comunità. Il lutto veniva elaborato con gesti rituali rispondenti a esigenze personali e collettive. Vi era la necessità di non trovarsi da soli ad affrontare la paura della morte e dei morti e soprattutto bisognava far fronte al delicato passaggio in cui, esalato l’ultimo respiro, l’individuo avrebbe raggiunto il suo regno.
Se il rito non veniva eseguito e il morto restava senza sepoltura né lamento si credeva che difficilmente avrebbe raggiunto il regno dei morti e il cadavere sarebbe rimasto inquieto.
Non dissimili da una zona all’altra della Sardegna, i rituali avevano inizio con la vestizione del defunto che veniva lavato e quindi vestito con abiti buoni, dedicati a tale circostanza.
Nel Sulcis le donne conservavano gelosamente il loro abito nuziale per destinarlo appunto al momento della sepoltura.
Le abitudini e attività quotidiane all’interno della casa venivano rimandate. Si trattava di una vera e propria sospensione della vita domestica a cui seguiva la trasformazione dell’abitazione in funzione della veglia funebre.
Quando la salma era composta, parenti e conoscenti sopraggiungevano “po sa bisita”, la visita a casa con cui esprimevano il loro cordoglio alla famiglia.
Le donne presenti nella stanza in cui giaceva il defunto recitavano le preghiere attorno al letto di morte. In questo ambiente aveva luogo il pianto rituale a cui prendevano parte is attitadoras ovvero le prefiche.
Durante la veglia funebre esse intonavano su cantu a su mortu (canto al morto), chiamato anche attitidu o attitu.
Questo termine, etimologicamente derivante da tita (seno), esprime il significato di voler consolare il defunto con un lamento cantato, accompagnandolo verso una vita nuova e richiama la serenità del neonato quando è preso in braccio e attaccato al seno.
S’attitidu consisteva in canti in rima improvvisati che lodavano il morto e ne esaltavano le virtù, svelando e informando sulla sua vita.
Erano vere e proprie poesie cantate, recitate con accoramentu cioè provenivano dal cuore, commuovevano e straziavano.
Is attitadoras, solitamente in età avanzata, a volte parenti dello stesso defunto o vedove della comunità, partecipavano alla veglia funebre spontaneamente o perché venivano chiamate. Erano vestire a lutto, avvolte in ampi scialli neri o coperte con il fazzoletto.
Riunite attorno al defunto esse recitavano il rosario.
S’attitidu aveva inizio quando la parente più prossima o la donna più anziana evocava il primo lamento.
Si partiva con un tono leggero e sommesso che cresceva improvvisamente d’intensità, coinvolgendo emotivamente le persone presenti.
Venivano lodate le virtù, il carattere e il coraggio del defunto. Si evocavano episodi salienti della sua vita e si cantavano anche le disgrazie che avrebbero potuto colpire la famiglia a causa della sua scomparsa.
Ogni canto si differenziava in base al sesso del defunto, alla sua età, alla classe sociale di appartenenza e alle circostanze della morte.
Se si trattava ad esempio di un giovane, il recitativo era tenero e melanconico. Se a passare a miglior vita era uno sposo, i lamenti parlavano della sua bellezza e della sua bontà e del futuro negato alla coppia.
S’attitidu acquisiva maggior pregio e rispettabilità qualora venisse eseguito da una donna di famiglia in possesso de su donu, una dote naturale che le permetteva di cantare con sentimento e dal profondo del cuore.
Quando il canto era creato da s’attitadora allena, una persona estranea, l’effetto era diverso e anche la forma espressiva cambiava.
Solitamente veniva utilizzato il pronome personale in terza persona, comunicando di non appartenere alla stretta cerchia familiare: “poita m’as lassau” (perché mi hai lasciato) ad esempio, diventava “poita d’as lassada” (perché l’hai lasciata).
Se la morte avveniva in forma violenta, s’attitidu poteva assumere una connotazione furiosa e particolarmente straziante. I canti incitavano alla vendetta e contenevano imprecazioni, frastimus, rivolti a chi aveva spezzato la vita di quel famigliare.
Per questo motivo, nel primo Novecento, le autorità religiose, in particolare i missionari vincenziani, hanno cercato di scoraggiare la pratica de is attitidus, ritenendola non lontana dal paganesimo e pericolosa.
Gli uomini prendevano parte alla veglia funebre in una stanza attigua a quella del defunto, riuniti in gruppo.
I funerali erano pubblici e rispondevano al bisogno di un saluto comunitario al defunto. La bara, sa cascia de mortu, veniva trasportata in spalla per la messa funebre. Al termine si proseguiva a piedi verso il cimitero, su campu santu.
Se la famiglia del defunto abitava in una zona distante dal cimitero poteva succedere che, per il trasporto della bara, si utilizzasse su carru a bois, un carro trainato da buoi.
Durante il tragitto si pregava, manifestando il proprio dolore con il pianto ad alta voce.
Poche famiglie benestanti potevano garantirsi una tomba in marmo. S’interru, ovvero la sepoltura della bara, avveniva per i più sotto terra, con una semplice croce di legno che indicava il nome, la data di nascita e quella di morte.
Dopo il funerale si porgevano le condoglianze alla famiglia. Una delle frasi più pronunciate in queste circostanze era “A du conosci in ciu celu!”. In tal modo si esprimeva la speranza che il defunto potesse essere accolto e incontrato di nuovo nel Regno dei Cieli.
In occasione del trigesimo vi era l’usanza di preparare su pani po is animas, il pane per le anime, che veniva distribuito a poveri e conoscenti a suffragio dell’anima del defunto.
Di Vanessa Garau
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