“Oltre il mare”: La storia della emigrazione agropastorale sarda nel centro Italia raccontata nel docufilm di Irio Pusceddu arriva in anteprima a Roma il 24 ottobre, ospite del Gremio dei sardi che ha l’onore di presentarla nella splendida sala consiliare di Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana di Roma Capitale, grazie all’accoglienza di un giovane simpatico e dinamico vicesindaco della Città metropolitana stessa, nonché sindaco di Colleferro, Pier Luigi Sanna, sardo fiero di famiglia originaria di Orune impegnata nell’attività agro pastorale.
“Oltre il mare” non è un revival etnologico né una operazione tesa a sottolineare pur validi valori “resistenziali” e di protesta dei pastori, come si è visto nel recente film “Il sogno dei pastori” di Tomaso Mannoni, una commedia drammatica di pastori in Barbagia, vittime delle inadempienze regionali, dell’usura delle banche e dell’inganno di avventurieri continentali. Oltre il mare parte da uno studio sulla emigrazione sarda dei proff. Pietro Clemente e Piergiorgio Solinas, docenti di antropologia culturale all’Università di Siena.
Andando ben oltre l’analisi fatta dalla Regione nel 2011 sui flussi migratori e sullo spopolamento in Sardegna, indaga, con uno spaccato temporale che va dal 1960 ai giorni nostri, sulla emigrazione sarda in Toscana, alto Lazio, Umbria e Abruzzo. Il documentario intervista la memoria delle famiglie–pioniere e la esperienza migratoria delle seconde e terze generazioni, per conoscere le sfide a cui sono andate incontro, il modo con cui le hanno affrontate, il rapporto con le comunità di arrivo, il tipo di integrazione che hanno raggiunto. Oltre il mare viene finanziato dal PAE 2022 (Piano Annuale per l’Emigrazione) della Regione Sardegna, ha avuto come capofila il Circolo Peppino Mereu di Siena, in collaborazione con il circolo di Firenze, il circolo Shardana di Perugia, il circolo Quattro Mori di Livorno, il Deledda di Ciampino. il Maria Lai di Roma, il Gennargentu di Nichelino, ed anche circoli stranieri come quello di Argentina, Shanghai Tokyo e la stessa Fasi. L’elencazione del partenariato non è rituale, bensì indica come sia necessario il concorso di più stakeholders per sostenere (e magari proseguire) indagini sociali, documentate e utili come quelle che Oltre il mare propone.
Elio Turis, Daniele Gabrielli, Dina Meloni e Irio Pusceddu, ideatori e regista del documentario, cambiano registro sulla narrazione del pastoralismo sardo e sulle sfide di cambiamento che è in grado di portare avanti. Pusceddu è riuscito a condensare 60 ore di filmato, fatto di interviste, testimonianze, magnifiche riprese realizzate anche grazie all’ uso di droni e sapienti fotografie, in un documento destinato ad aprire domande importanti, sui fenomeni migratori, sulle politiche di accoglienza e integrazione adottate per contenerli, sul futuro del settore agro-pastorale sulla rivitalizzazione di zone appenniniche interne alla cosiddetta Italia di mezzo, sulla quale la prima questione riguarda l’emigrazione di pastori sardi, che non emigrano da soli ma con la loro famiglia. La motivazione è quasi sempre quella di trovare terreni e pascoli adeguati. Può essere che vada in avanscoperta l‘uomo, a valutare la disponibilità di terreni da pascolo che in Sardegna si è fatta rara, e difficile, ma una volta presa la decisione di emigrare questa riguarda tutta la famiglia. Con la famiglia emigra una cultura, una intera civiltà, quella pastorale, fatta di modi di vivere, di simbolizzare, di organizzare lo spazio e il tempo, di produrre e di relazionarsi, di formarsi come persone, di temprarsi per affrontare le sfide che la vita propone. “Volevamo farcela, vincere la sfida che andare oltre il mare comportava”, dice accorato uno dei protagonisti. ”Siamo partiti con due vagoni pieni di pecore, abbiamo trovato un podere fatiscente con una strada dissestata per arrivarci, niente luce e senza acqua, era questo il famoso Continente, ma volevamo riuscire …” Ed ecco entrare in campo quella volontà di autonomia che il pastore sardo ha sviluppato non solo verso i nemici esterni ma anche rispetto alla comunità pastorale in cui è vissuto, dove non vengono riconosciute forme di dominio e dove si coltiva un forte sentimento di fierezza e di convinzione di parità. Ogni persona può diventare “homine” di valore e quella “ balentia”, che nel tempo ha acquisito una accezione negativa perché legata a forme di opposizione alle regole civili, rispunta come forza positiva, fatta di esperienza e “resilienza” che portano il pastore a farsi rispettare come persona che è portatrice di una valida cultura agro-pastorale formata in un apprendistato sul campo iniziato fin dalla giovane età! Questo aspetto può spiegare in parte la vicenda dei corsi di formazione per agricoltori immigrati ideati per aggiornare la loro formazione! Meno frequentati nelle prime edizioni, sono stati accolti con favore dalle seconde generazioni. Lo ha dimostrato il corso organizzato dal Circolo Shardana che a conclusione ha conferito una decina di diplomi soprattutto a ragazze discenti la professione del pastore.
Se i pastori sardi hanno bisogno come tutti gli altri di conoscere le innovazioni tecniche e alcuni aspetti delle innovazioni meccaniche che vengono introdotte in agricoltura, è pur vero che gli anziani hanno trasmesso ad allevatori e realtà pastorali continentali una organizzazione più rapida e veloce del lavoro di trasformazione dei prodotti lattiero caseari, una cura della stalla, un modo di accudire e di gestire il bestiame che permetteva di seguire greggi di duecento/trecento e più capi anche nella transumanza, mentre l’agricoltore abruzzese o laziale faceva fatica a controllare greggi esigui di soli 60 capi.
L’innovazione più significativa introdotta dalla presenza dei pastori sardi, quella che oltre al miglioramento delle superfici e delle colture da pascolo rappresenta un vero salto di modernizzazione, consiste nella trasformazione di vecchi casolari e poderi desueti in vere aziende agricole. Le testimonianze parlano chiaro: il pastore sardo si trova davanti alla rottura del sistema duale che aveva conosciuto in Sardegna, “su campu”, dove, con l’appoggio di un ovile o di una ”pinnetta“ il pastore badava e allevava il gregge, separato e lontano da “sa idda”, l’abitato dove la moglie del pastore accudiva alla cucina, al pane, ai figli, alle relazioni con la comunità.
Questo modello duale con la migrazione si rompe, la donna si trova da sola in una casa isolata dall’abitato, senza mezzi per comunicare, con una lingua parlata diversa dall’italiano ufficiale, senza persone con cui stringere relazioni, lontana dalla comunità con cui scandiva delle più importanti ricorrenze religiose e familiari. A sentire le dirette testimonianze è proprio la donna della prima generazione colei che affronta i maggiori sacrifici e sforzi di adattamento, mentre per le seconde e terze generazioni le cose sono cambiate; grazie alla scuola, agli scambi commerciali, alla accoglienza che le comunità locali hanno offerto dopo le prime resistenze iniziali, si è creata una rete di relazioni sociali e di inclusione che contribuisce allo sviluppo economico di tutto il territorio. Nasce e si sviluppa la nuova azienda agricola, dove l’abitazione diventa una struttura aziendale, articolata nelle funzioni di stalla, di raccolta e trasformazione del latte, di conservazione e stagionatura dei prodotti trasformati, spesso in punto di distribuzione e vendita dei prodotti stessi.
Il podere è diventato una vera e propria azienda, un modello economico che ridà vita alle aziende familiari, sia autoctone e immigrate, dove possono lavorare tutti i membri della famiglia, donne per prime, un modello in grado di attirare l’interesse delle nuove generazioni. Nelle interviste alle donne di più giovani, che pure hanno fatto un percorso di studi significativo, si sente come la scelta di lavorare nella azienda agricola risponda non più al bisogno di trovare una sistemazione tout court, ma a quello di ritornare ad un contatto con la natura, con gli animali, con uno stile di vita più compatibile con la salute e l’ambiente, mentre per i maschi, benché laureati, il ritorno al lavoro paterno rappresenta il ritorno a quella indipendenza, soddisfazione e autonomia che dà il lavoro del pastore allevatore. Questi processi sono oggi in aumento, e il documentario ci dice che la trasformazione dei territori implica una crescita delle comunità autoctone, arricchite da quelle famiglie di vecchia immigrazione che non solo si sono integrate senza conflitti, ma hanno dato spinta alle economie locali.
Viene da chiederci una domanda: come possiamo proprio noi beneficiari di percorsi di emigrazione positivi, artefici di una migrazione inclusiva, di una integrazione che passa attraverso il rispetto e la salvaguardia dei nuclei familiari, accettare in silenzio che si consumino politiche di separazione e di violenza sugli emigranti che arrivano oggi sulle nostre coste? Come possiamo separarli violentemente dalle loro famiglie, sia che si tratti di minori non accompagnati, di padri che cercano di trovare sostentamento per le famiglie lontane a cui non hanno speranza di ricongiungersi, a madri che cercano fortuna per i suoi piccoli che hanno ancora al seno?
L’ attacco più disumano verso questi miseri fratelli è quello di negare una accoglienza che dia loro la possibilità di avere o ricostituire una famiglia, mentre la miopia dell’Europa e quella di non capire che i nostri pascoli industriali e agricoli, la nostra intera economia senza gli immigrati e le loro famiglie, saranno destinati inesorabilmente a inaridirsi e forse a scomparire per sempre.
di Luisa Saba, Consigliera de Il Gremio.
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