È una vicenda paradossale, come altre analoghe in questi giorni in ambito regionale e nazionale, soprattutto da quando sono progressivamente aumentati i contagi ed è andato in crisi il sistema di tracciamento e prevenzione dei nuovi casi positivi, quella che vede protagonisti Giuseppe Arrus e Ivana Corsini, marito e moglie, residenti nel Comune di Carbonia, da oltre 30 giorni obbligati a stare in quarantena a causa del Covid-19.
Giuseppe, il primo dei due a restare contagiato (presumibilmente) il 17 ottobre scorso durante lo svolgimento del proprio lavoro in una barberia del centro cittadino, dal 5 novembre si è negativizzato ma non può comunque lasciare la sua abitazione perché nel frattempo anche la moglie Ivana è risultata positiva al virus e finché non riceverà a sua volta una diagnosi negativa – dopo essersi sottoposta al test diagnostico prescritto dall’ASSL, nessuno dei due potrà uscire da casa.
Il problema è che per lei il tempo previsto per la quarantena è terminato 4 giorni fa e ancora oggi, nonostante i ripetuti solleciti al dipartimento di prevenzione, considerata anche la sua condizione di paziente asintomatica, nessuno l’ha contattata per sottoporla a un nuovo tampone.
Nel frattempo la loro condizione psicologica, chiusi fra 4 mura, peggiora. Così come quella economica in quanto nessuno dei due può, evidentemente, lavorare e finora l’acquisto dei beni di prima necessità, così come quello di svariate medicine, è stato possibile solo attingendo ai pochi danari precedentemente risparmiati nonché alla solidarietà di familiari e amici.
“Da quando mio marito è rimasto contagiato, spiega Ivana Corsini, è iniziato un vero e proprio incubo, e dal momento in cui ha accusato i primi sintomi, il 20 ottobre scorso, ci siamo sentiti letteralmente abbandonati. Mio marito ha passato, almeno fino al 31 ottobre, un periodo molto travagliato: caratterizzato da febbre altissima, tosse persistente, dolori alle ossa, alla testa e ai reni, da insonnia e da severa inappetenza che lo ha portato a perdere almeno dieci kg. Durante tutto il suo decorso patologico gli son stata vicino momento per momento, al punto che la notte non dormivo nemmeno io per paura di eventuali crisi respiratore e in generale per timore che potesse accadergli qualcosa di irreparabile.”
Il 31 di ottobre finalmente Giuseppe Arrus, ha potuto sottoporsi al tampone e il 5 novembre, dopo la graduale scomparsa dei sintomi, ha ricevuto il referto che ha sancito la sua negatività al virus. Nella stessa data la moglie, che lo ha costantemente assistito fin dalle prime battute della sua malattia, è stata sottoposta da parte dell’azienda sanitaria al test, ovvero dopo 16 giorni dalla comparsa dei primi sintomi nel marito. Il suo esito è arrivato dopo 6 giorni, l’11 novembre e ha certificato la sua condizione di positività al virus.
“Dal 5 di novembre a oggi, denuncia la donna, ho ampiamente superato il periodo di quarantena previsto per legge entro il quale avrebbero dovuto sottopormi al successivo tampone. Ma nonostante i diversi solleciti all’ufficio d’igiene tramite mail e telefono, ancora nessuno mi ha fatto sapere quando potrò sottopormi al test e soprattutto quando, insieme a mio marito, potremo uscire di casa. La nostra situazione, ripete ormai senza sosta Ivana Corsini, è insostenibile. Siamo esasperati e abbiamo assoluto bisogno di lasciare la nostra abitazione per andare a lavorare e poterci così sostenere. Faccio un appello all’ASSL affinché prenda a cuore la nostra situazione e ci risponda”.
Questa vicenda, come detto in precedenza, è paradossale. Prima a essere rimasta “prigioniera” in casa è stata la moglie per accudire al marito, e poi lui stesso quando a essere rimasta contagiata è stata al contrario proprio la consorte. Nel mezzo, in questa storia, c’è la sempre crescente difficoltà del dipartimento di prevenzione che, in conseguenza all’aumento dei casi positivi, non è più in grado di far fronte ai suoi doveri di tracciare, individuare e interrompere le nuove catene di contagio e, soprattutto, di dare risposte celeri a chi si trova a subire gli sconvolgenti effetti di questo virus sia in termini di conseguenze per la salute che rispetto alle limitazioni individuali, e di conseguenza economiche e sociali, che la condizione di contagiato porta a subire.
Ovviamente la responsabilità non è di coloro che, coraggiosamente, nel dipartimento di prevenzione, così come in tante altre strutture sanitarie in prima linea nel fronte di contrasto al Covid-19, ogni giorno dalle USCA ai laboratori di analisi fino ai pronto soccorso e ai reparti di rianimazione, compiono egregiamente il proprio dovere facendo gli straordinari e talvolta mettendo a repentaglio la propria salute. Lo è invece di chi, in ambito governativo, avrebbe dovuto anticipare le criticità manifestatesi in questo periodo d’emergenza sanitaria e adoperarsi, invece che per elargire a piene mani “bonus vacanze” risultati inutili, o l’acquisto di banchi monoposto oggi evidentemente inutilizzati, per potenziare il sistema di prevenzione dei contagi in ambito nazionale e locale, alimentando gli organici e potenziando gli strumenti a disposizione degli operatori sanitari.
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