In questi giorni di isolamento forzato ognuno di noi si è reso conto di quanto sia importante poter gestire la propria indipendenza. Volutamente dico indipendenza perché parlare di libertà, di questa semplice parola che evoca anche leggerezza, serenità e soprattutto emancipazione sociale, in Italia non è facile o forse impossibile. Un mio caro amico affermava che il concetto di libertà si ferma alla parola ma in sostanza non esiste anche perché forse non ne conosciamo la vera essenza. Ognuno può attribuirgli il significato che ritiene, in base al proprio bagaglio socio culturale, alla famiglia di provenienza e anche al tessuto sociale in cui si è cresciuti. Fondamentalmente la libertà non esiste. Esistono, altrimenti, il rispetto e l’educazione e questi potrebbero bastare per delimitare i confini della cosiddetta “Libertà” personale, laddove non è consentito a nessuno prevaricare. Dentro quei limiti ci vive una persona con tutte le sue contraddizioni ma anche con un insieme di valori e di affetti, costruiti e ricercati con pazienza, umiltà e magari anche sogni. Ecco perché bisognerebbe riflettere prima di sconfinare nelle libertà degli altri e magari prima di parlare chiedersi se il proprio dire corrisponda al vero, se è buono e infine se ha una qualche utilità. In caso contrario è meglio tacere perché altrimenti si scadrebbe nel pettegolezzo fine a sé stesso. Questo è il modus operandi che cerco di utilizzare nella vita e nel mio lavoro da direttore di una testata giornalistica, probabilmente qualche volta non riesco perché sono umano e l’errore è sempre dietro l’angolo.
L’Italia, da una statistica annuale della Ong “Reporters Sans Frontières”, è al 41esimo posto nella classifica riferita alla libertà di stampa. Sono oltre 20 i giornalisti costretti a vivere sotto la protezione delle forze dell’ordine a causa delle minacce ricevute per non parlare poi di quel popolo dedito alle offese, alle ingiurie e alla delegittimazione dei professionisti dell’informazione. Se è concepibile che tali accuse vengano da persone che vivono di malaffare e di delinquenza, magari colpite da un’inchiesta giornalistica scomoda, meno comprensibile appare quando queste arrivino dalla politica o anche da amministratori pubblici. Infatti, sempre secondo questa statistica, gli attacchi dalla politica ultimamente risultano meno virulenti, contrariamente agli attacchi agli operatori dell’informazione da parte di esponenti del Movimento 5 Stelle (leggi qui).
Di recente un collega nel Sulcis è stato fatto oggetto di accuse gravi da parte della Sindaca di Carbonia, Paola Massidda esponente pentastellata. La prima cittadina in un’intervista ad una televisione locale si dichiarava contenta che, finalmente, all’interno della redazione vi fosse stato un cambio di giornalista. Sempre secondo la Sindaca, il precedente giornalista l’avrebbe limitata nelle sue apparizioni televisive, insinuando che tutto questo fosse legato ad una non meglio precisata appartenenza politica del collega. Per quel poco che ritengo di sapere di Manolo Mureddu, certamente posso affermare che mai si è rivolto verso nessuno in modi non professionali, tantomeno ha mai lesinato interviste a politici e amministratori di ogni ordine e grado. La sua vicinanza verso i problemi della gente è riconosciuta da tutti anche in periodi in cui, probabilmente, le difficoltà le viveva sulla sua pelle come cassa integrato e disoccupato. Probabilmente la prima cittadina, non essendo una giornalista, non conosce le dinamiche di una redazione dove gli argomenti si discutono e insieme gli si dà vita e consistenza. Proprio come si fa all’interno di una giunta comunale dove gli assessori e il sindaco decidono cosa sia meglio per il bene dei cittadini, settore dove la sindaca dovrebbe essere preparata. Ecco, questo succede anche nel mondo del giornalismo.
Avere un microfono in mano, che si sia intervistati o intervistatori, non autorizza ad offendere le professionalità e soprattutto l’onorabilità di chi prova tutti i giorni a raccontare le vicende del mondo. Un politico, un amministratore invece che ricercare visibilità televisive o spazi nei giornali dovrebbe soprattutto occuparsi del bene pubblico, oggetto primario del suo incarico. Nessuna testata giornalistica è obbligata ad ospitare le parole dei vari esponenti politici e quando lo fa è frutto di uno studio specifico sull’argomento e si ritiene importante anche il loro punto di vista.
Il fatto accaduto a Carbonia segna una brutta pagina sia per la politica locale, sia per il giornalismo che si vede attaccato solo perché fa opinione, concetto imprescindibile dalla libertà di stampa. Il giornalista, per fortuna, può fare ancora opinione anche se questa non è gradita dai palazzi del potere, a partire da quello Comunale e a finire a Palazzo Chigi. A questa opinione possono seguire critiche ma sempre con quel rispetto e con quell’educazione che deve essere fondamento nei rapporti, cosiddetti, umani. Sì, umani perché gli animali rispondono a dinamiche diverse e forse più logiche.
Non sta a me sindacare sui rapporti personali tra le due parti ma, personalmente, biasimo ogni offesa nei confronti del collega giornalista, reo di essere stato sempre educato e aver seguito la deontologia professionale. Così come, in qualità di direttore, difendo la mia redazione e il suo operato, allo stesso tempo cerco di trasmettere loro il rispetto verso tutti e, soprattutto, verso i colleghi giornalisti. Sono però consapevole che in alcuni casi si preferisce seguire l’adagio latino “Mors tua vita mea”, dimenticando che la vita non è orizzontale ma circolare e come nel gioco dell’oca si rischia di ritornare alla partenza.
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