Fabbricate su larghissima scala, le scarpe oggi sono un prodotto vario e accessibile. E’ possibile acquistarle ai grandi magazzini o nelle boutique alla moda in colore e materiali differenti, per soddisfare il gusto e le tasche di ciascuno.
Nel Sulcis di fine ‘800 erano un bene di lusso e le persone meno agiate che ne avessero desiderato un paio dovevano mettere da parte i pochi risparmi per riuscire ad acquistarle. Chi le possedeva faceva attenzione a non invecchiarle affinché durassero a lungo. Venivano indossate la domenica, giorno di riposo, e nelle ricorrenze, insieme al vestito nuovo. C’era anche chi aveva la fortuna di riceverle come usato. In quel caso si trattava di una sorta di scambio o dono tra persone dello stesso nucleo parentale. I più camminavano scalzi, soprattutto donne e bambini.
Tra le calzature modeste indossate dalle donne vi erano gli zoccoli di legno, is capus, che fermavano il piede all’estremità tramite una fascia aperta, sa manègia. Quest’ultima era in tessuto colorato e veniva sostituita con un pezzo di stoffa scura in caso di vedovanza. Gli zoccoli erano un manufatto artigianale, realizzati dal calzolaio del paese o anche in casa se si era capaci.
Il pezzo di legno occorrente doveva essere leggero e asciutto. Si disegnava la forma del piede sulla parte piallata che veniva successivamente tagliata e modellata perché il piede vi si adagiasse comodamente, quindi si fissava la tomaia in tessuto.
Le donne di famiglie abbienti portavano calzature in pelle nera con tacco basso e proporzionato. Questi modelli di fabbrica, simili tra loro nelle linee essenziali, erano accollati e ispirati alla moda francese. Accompagnavano abiti eleganti e a uso festivo.
Si indossavano con calze bianche e si intravedevano appena sotto la gonna dell’abito tradizionale, decisamente ampia e lunga.
A Sant’Antioco erano in uso anche calzature in tessuto broccato o rivestite in velluto, che rimandavano a uno stile settecentesco.
Gli stivaletti, is botìnus, anche questi un privilegio delle donne di alta classe sociale, rappresentavano una variante della moda Vittoriana. A collo alto e dritto, con tacco medio, sagomato e rientrante, coprivano la caviglia e potevano essere chiusi con lacci in corda o bottoni disposti da un lato. Presentavano delle cuciture anteriori o laterali ed erano confezionati solitamente in pelle morbida o scamosciata di colore scuro.
A partire dagli anni venti del ‘900 la visibilità delle scarpe incominciò ad assumere maggior rilevanza. L’abito tradizionale della donna sulcitana si alleggerì progressivamente di alcuni dettagli che portarono alla diffusione di gonne meno vaporose e più corte, a favore della calzatura che poteva finalmente essere mostrata interamente.
Insieme alle scarpe scure fecero moda quelle di colore chiaro come le decolletè bianco-crema. Quasi un vezzo per le donne a cui non dispiaceva osare. Delicate e soggette a sporcarsi facilmente, venivano acquistate da persone che potevano permettersene più paia, incluse le scarpe nere.
Le calzature maschili comprendevano invece scarponcini allacciati, botinus, sia per uso giornaliero che festivo. Erano in pelle naturale o nere e venivano costantemente unte con grasso animale per renderle confortevoli. Si presentavano piuttosto robuste al punto da essere adatte soprattutto nei lavori all’aperto e in ambienti ruvidi di campagna. La suola di queste scarpe era di solito in cuoio chiodato. La tomaia, in gran parte coperta da is craccias, ghette nere in orbace, era a punta arrotondata e rialzata, con allacciatura impostata in corrispondenza del collo del piede.
Di Vanessa Garau
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