Abitata fin dal Paleolitico, testimoniato in verità, allo stato attuale, da resti non molto numerosi, è a partire dall’età neolitica che la Sardegna produce una fioritura di culture diversificate che hanno lasciato innumerevoli tracce monumentali e nella produzione artigianale. Al riparo di grotte naturali prima ed in villaggi di capanne poi, le più antiche genti dell’isola vivevano di agricoltura, caccia e pesca in un rapporto intimo e religioso con gli elementi della natura che le circondavano. Cercavano di assicurarsi la fertilità dei campi e la fecondità degli animali attraverso il culto di una divinità femminile, una Dea Madre, che rappresentano in diverse varianti realizzando idoletti di pietra e terracotta che ponevano anche a protezione dei defunti. E a questo proposito è senz’altro da consigliare la visita di alcune migliaia di sepolture ipogeiche disseminate nell’isola, le “Domus de Janas”, case delle fate o delle streghe per la tradizione popolare, scavate nella roccia, nelle pareti delle montagne in luoghi spesso inaccessibili.
Ad Alghero la necropoli di Anghelu Ruju offre la possibilità di esplorare agevolmente decine di grotticelle funerarie, alcune delle quali decorate con veli di pittura rossa e teste di toro stilizzate, simbolo maschile di fertilità e perciò di continuità della vita, molto frequente in questo tipo di sepoltura. Per chi è disposto ad affrontare un certo tratto di cammino a piedi, spostandoci nella provincia di Cagliari, nelle campagne di Villaperuccio, la necropoli di Montessu offre, in un anfiteatro naturale di grande bellezza, uno degli esempi più suggestivi di questo tipo di architettura funeraria. Ad una religione della fecondità legata alle pratiche agricole oppure ad un culto degli antenati sono poi da ascriversi anche i menhirs, in sardo “perdas fittas” o “perdas longas”, che punteggiano per lo più isolati, spesso in coppia o a piccoli gruppi, talvolta in allineamenti, le campagne. Da non perdere la spettacolare concentrazione di Pranu Mutteddu a Goni nel Gerrei, che accanto ad un ricco complesso tombale del III millennio a.C. vede una cinquantina di “pietre fitte”, una ventina delle quali allineate lungo l’asse Est-Ovest in apparente riferimento quindi al corso celeste del sole.
Allo stesso periodo risale un luogo di culto eccezionale non solo in Sardegna ma in tutto il Mediterraneo occidentale, l’altare a terrazza di Monte d’Accoddi nei pressi di Porto Torres, con la sua forma a piramide tronca con rampa inclinata. In linea invece con le tendenze del megalitismo dell’Europa occidentale sono il centinaio circa di dolmen usati come sepoltura durante il III e il II millennio a.C. e concentrati prevalentemente nella Sardegna del nord. Il più monumentale è il dolmen “Sa Coveccada” che si erge su un tavolato nel territorio di Mores, nel Sassarese, con i suoi lastroni di trachite rosa alti quasi 3 metri.
Ma il megalitismo architettonico trova la sua più clamorosa espressione nella civiltà nuragica, che si sviluppa dal 1800 a.C. circa, per tutta l’età del Bronzo, sino alla fine del VI secolo a.C. imprimendo nell’isola un’impronta inconfondibile ancora oggi per la compenetrazione nel paesaggio del suo monumento simbolo, il nuraghe. Diffuse in tutta la Sardegna in oltre 7mila esemplari, le caratteristiche torri tronco-coniche con camera circolare interna coperta a tholos o falsa cupola, i nuraghi presentano in realtà soluzioni architettoniche molteplici. I risultati sono spesso stupefacenti per la ricchezza dei sistemi difensivi aggiunti al tholos centrale: ulteriori torri, bastioni, mura di cinta e poi feritoie, garette di guardia, botole. Tutto evoca l’esigenza di difendere da nemici esterni ed interni le comunità che vivevano in villaggi di capanne circolari spesso addossate e raccolte attorno alla “reggia” – fortezza, e di proteggerne i frutti del lavoro. Delle fatiche quotidiane – nei campi, al pascolo, nelle officine metallurgiche – e della preoccupazione di tutelare il territorio del villaggio parlano così il complesso di “Su Nuraxi” a Barumini, nel Cagliaritano, uno dei più ricchi e forse il più famoso dell’isola, il maestoso “Losa” al quale si accede da Abbasanta, il “Palmavera” a guardia del golfo di Alghero, non distante dalla già citata necropoli di Anghelu Ruju, o l’imponente e suggestivo “Santu Antine” di Torralba nel Sassarese. Ma le caratteristiche torri nuragiche sapranno attirare l’attenzione anche del viaggiatore che percorra in auto le strade dell’isola, manifestandosi, magari all’improvviso, su un’altura, o nel cuore di una pianura aperta, in mezzo alla campagna, a testimonianza del legame inscindibile tra passato e presente.
Il quadro della ricca ed affascinante civiltà dei nuraghi andrà però completato con la visita di alcune sepolture tipiche di questa età, le “Tombe dei Giganti”, il cui nome è stato suggerito alla fantasia popolare della maestosità di questi sepolcri collettivi. Inoltre lo schema della pianta con lungo corridoio coperto destinato alla sepoltura vera e propria e sviluppo ai lati, nella parte anteriore, di 2 bracci a semicerchio che individuano uno spazio scoperto per i riti funebri e la preghiera, evoca l’immagine stilizzata di una testa taurina con lunghe corna arcuate di chiaro valore simbolico religioso. Nelle campagne di Dorgali si trovano alcuni degli esemplari più interessanti e ben conservati nei quali si può apprezzare la caratteristica stele con piccolo portello che segna l’ingresso al corridoio della sepoltura. Da vedere sono anche le tombe nel territorio di Paulilatino, con il grandioso esemplare di “Goronna”.
Nella zona di Paulilatino, particolarmente ricca delle memorie del passato, nell’area del villaggio santuario di Santa Cristina si può ammirare anche uno degli esemplari più belli e raffinati di tempio a pozzo, caratteristico luogo di culto delle acque dell’età nuragica. I pozzi sacri, con camera circolare a tholos parzialmente interrata e gradinata che scende a raggiungere la vena dell’acqua fecondatrice, sono circa 40 in Sardegna, talvolta isolati nelle campagne o legati a villaggi, spesso cuore di veri e propri santuari. È il caso del tempio a pozzo di Santa Vittoria racchiuso all’interno di un grandioso complesso che sorge nella giara di Serri. Qui dovevano convenire pellegrini da tutta l’isola, come testimonia la ricchezza architettonica del santuario, che vede, accanto agli edifici di culto ed agli alloggiamenti per sacerdoti e fedeli, spazi comuni per la riunione dei capi, per il mercato, per canti e balli.
Testimoniano la religiosità delle genti nuragiche anche altri edifici di culto, i cosiddetti “templi a megaton”, dei quali si conoscono pochissimi esemplari come i 2 tempietti di “Serra Orrios” a Dorgali o il megaton di Esterzili. Questi luoghi sacri, per la pianta rettangolare allungata con doppio ingresso “in antis”, ricordano analoghe costruzioni greche e testimonierebbero i contatti con il mondo egeo confermati dal ritrovamento di ceramiche micenee in contesti nuragiche. Negli ultimi secoli della civiltà nuragica, lungo le coste dell’isola, i Fenici fondarono le loro prime colonie: Sulci, l’odierna Sant’Antioco, Karalis nel sito del capoluogo sardo, Nora e Bithia a pochi chilometri da Cagliari, Tharros nell’Oristanese. In questi ed in altri numerosi centri successivamente fondati, nel VI secolo a.C., ai Fenici si sostituirono i Cartaginesi che verso il 510 a.C., dopo varie vicissitudini, riuscirono a conquistare la Sardegna, ergendo a controllo delle principali vie di comunicazione con l’interno o di zone di particolare interesse economico un complesso sistema difensivo di cui sono testimoni le fortezze di Monte Sirai e Pani Loriga che controllavano le cospicue ricchezze minerarie del Sulcis-Iglesiente. Nonostante le sovrapposizioni di età romana, le principali città puniche, Tharros, Nora e Sulci, permettono al visitatore, in luoghi veramente bellissimi, di individuare l’impianto urbanistico originario, i più importanti luoghi di culto, templi e tophet, e le necropoli.
Nel 238 a.C. la Sardegna diventa provincia romana, anche se i nuovi conquistatori dovranno, per imporre il loro dominio, affrontare l’ostilità e la resistenza delle popolazioni sardo-puniche che per un lungo tempo resteranno legate alle loro tradizioni culturali. La romanizzazione comunque si compie nel corso dei 7 secoli di occupazione di Roma che ha lasciato, anche in questo caso, molteplici segni nel patrimonio architettonico dell’isola. A Cagliari si possono ammirare un anfiteatro del II secolo d.C. che ricava nella roccia gli elementi principali ed ospitava circa 10mila persone, tuttora utilizzato per spettacoli estivi; la Villa del Tigellio, attribuita al poeta latino di origine sarda di cui parlano Orazio e Cicerone; la suggestiva Grotta della Vipera con iscrizioni in greco e latino che parlano del sacrificio di una donna per il proprio marito.
Anche in molti altri centri dell’isola si possono scoprire vestigia romane: terme, necropoli, case private e templi, soprattutto di età imperiale. Ma c’è un monumento che forse più degli altri sintetizza la successione di popoli e civiltà, la continuità, pur nelle differenze, del patrimonio culturale della Sardegna: il Tempio di Antas, non lontano da Fluminimaggiore. L’edificio, ristrutturato sotto Caracalla nel 213 d.C., era prima un sacello punico, e prima ancora forse un luogo di culto di un dio indigeno, come testimonierebbero piccoli bronzi di età nuragica. Il pronao del rifacimento romano ha 4 colonne sulla fronte che sostengono un fregio nel quale si legge la dedica latina a Sardus Pater, divinità tradizionale della Sardegna antica, che le numerose epigrafi puniche qui rinvenute permettono di identificare nel dio punico Sid. Insomma, i conquistatori romani vollero mostrare rispetto per il patrimonio religioso delle popolazioni dell’isola, conquistate militarmente e politicamente, ma orgogliose della loro cultura e forti, come oggi le genti sarde, della vitalità di un passato che continua a vivere nelle tradizioni e nella memoria.
Di Massimiliano Perlato
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