Karim Galici è nato a Cagliari nel 197. E’ un regista, sceneggiatore, attore e manager culturale. Laureato in Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo (D.A.M.S) all’Università degli studi di Roma Tre e Master in Management per lo Spettacolo alla Bocconi in collaborazione con Accademia Teatro alla Scala e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Si diploma allo Studio Internazionale dell’Attore “Permis De Conduire” e inizia la sua carriera nel ’99 debuttando al Teatro Agorà di Roma. Collabora con diverse compagnie di spessore internazionale, tra cui The Living Theatre (New York) e il Teatro de Los Sentidos (Barcellona). Nel 2002 fonda la compagnia Impatto Teatro a Roma con la quale sviluppa una poetica che approfondisce il teatro sensoriale in chiave site specific nella valorizzazione dei luoghi e con cui attualmente sta curando il progetto Storie di Naturale Follia sugli ex manicomi. Mentre, tra i tanti eventi realizzati, anche con altre compagnie, organizza in Emilia-Romagna “Bassa Continua – Toni sul Po” (gran finale del “Progetto Ligabue”) che vince il Premio Ubu 2015 come Miglior Progetto Artistico/Organizzativo.
Parallelamente all’intensa attività teatrale, lavora nel cinema dove ha esordito nel ’99 come attore protagonista nel cortometraggio di Fabio Del Greco “L’influsso degli astri”. Con Del Greco nasce un sodalizio artistico che lo porta poi a partecipare al mediometraggio “La Luna in Ariete” e tre film (“Mistero di un impiegato”, “La donna dello smartphone” e “Slow life”). Complessivamente ha partecipato a 6 film e 4 cortometraggi. Come regista la sua opera prima è “Grado Zero” (2000) che è stato finalista dei più importanti festival di cortometraggi italiani.
Ha firmato i documentari “Dall’Est con Amore. Quattro storie di vita e integrazione” (2020) e “La Vita sopra ogni cosa. Storia di un Padre ortodosso in Sardegna” (2021), prodotti da Cittadini del Mondo ODV.
Oggi è in sala con il suo primo lungometraggio “Le cicogne di Chernobyl”, un documentario che ripercorre le vicende legate al disastro nucleare in terra ucraina, seguendo poeticamente le tracce dei piccoli protagonisti, bambini reduci, a volte, da una storia dolorosa riscattata dall’amore, dall’accoglienza e dalla solidarietà di tante famiglie italiane che hanno aperto il cuore e la propria casa a migliaia di bambini provenienti dai territori contaminati.
Tra passato, presente e futuro “Le cicogne di Chernobyl” è un insieme di racconti dove le esperienze vissute dai protagonisti scorrono in un flusso di rimandi e flash back per ricongiungersi continuamente con il disastro nucleare da cui tutto è partito. Storie, non solo di distruzione, ma anche di ponti che si sono costruiti tra persone e popoli. In particolare, il racconto si sofferma sulle nuove vite degli “ex bambini di Chernobyl” dopo l’esperienza nel nostro paese, mettendo in luce la generosità delle famiglie, ma anche la forza dei ragazzi che hanno trovato con coraggio la determinazione di “rinascere”.
Nel film si alternano percorsi e figure diverse: come i tre fratelli che dopo essere cresciuti separati in tre orfanotrofi si ritrovano uniti da una grande famiglia; la ragazza che attraverso la formazione trova lavoro e stabilità in Sardegna, ma decide di tornare in patria per amore o le due bambine diventate amiche per la pelle dopo esser state accolte da una nonnina di Castiadas con la quale continuano a rimanere in stretto contatto come due vere proprie nipoti.
Un emozionante mosaico di storie che evidenzia come l’accoglienza dei bambini dei progetti Chernobyl non ha prodotto solo benefici diretti sulla salute di questi ultimi, ma anche evoluzioni sociali e culturali: le famiglie ospitanti imparano infatti a conoscere la cultura dei piccoli, come questi conoscono quella italiana e il suo modello familiare, paradigma positivo per la loro vita adulta, con effetti positivi per la società tutta. Inoltre, il legame affettivo che scaturisce da questo tipo di esperienze non investe solo gli individui coinvolti direttamente, ma l’intera comunità in nome di valori positivi e costruttivi. L’accoglienza quindi come relazione di aiuto, flessibile e paritaria in cui il “bisogno di aiuto “diventa una vera e propria risorsa per il bene comune e per il rispetto dei diritti dei minori.
Racconta Karim Galici “Le Cicogne di Chernobyl è il mio primo lungometraggio e allo stesso tempo l’ultimo capitolo della trilogia che insieme all’associazione Cittadini del Mondo abbiamo voluto dedicare alle comunità provenienti dall’Est Europa”.
Un’indagine storica e sociale scritta per il grande schermo con intenso trasporto, lucidità intellettuale e straordinaria sensibilità che scavalca qualsiasi retorica o facile buonismo. “Da anni pensavamo di raccontare con un docufilm il Progetto Chernobyl – prosegue il regista – e fin dall’inizio mi sembrava una bell’idea di resilienza: una parola spesso abusata, ma in questo caso calzante, anche da un punto di vista psicologico, con la capacità di reagire che hanno avuto i bambini delle zone radioattive, superando traumi e difficoltà e trovando l’equilibrio in una nuova vita. Quando ho deciso di girare questo documentario non potevo sapere tutto questo, ma lo immaginavo. La realtà dei loro racconti è andata però oltre ogni immaginazione. Mi ha ricordato quanto può essere diversa l’infanzia a seconda di dove nasci e che non sempre corrisponde al momento più bello della vita.”
Tra mille difficoltà, lo staff artistico/operativo diretto da Karim è anche riuscito a partire per la Bielorussia avvicinandosi sino a 30 chilometri dalla Centrale nucleare. “È stata un’esperienza incredibile – sottolinea il regista – in cui abbiamo respirato un’aria che a distanza di quasi quarant’anni è ancora pesante e abbiamo potuto intervistare chi è sopravvissuto al disastro. Siamo entrati nelle zone che furono evacuate con chi ha la fortuna di poter adesso raccontare quei momenti, ma ha pagato il prezzo altissimo di perdere la propria casa, la propria cittadina e in alcuni casi la propria famiglia. Storie di distruzione che stato bello raccontare con il punto di vista della ri-costruzione ad iniziare dalle singole persone sino ai popoli coinvolti e i loro territori.”
Le riprese del documentario seguono un taglio registico che miscela sapientemente il linguaggio del reportage a quello poetico dell’occhio di Karim Galici. Immagini forti, filmati di repertorio, spaccati di quotidianità familiare, testimonianze e ricordi sono armonizzati da un’eccellente colonna sonora. Tutte le musiche del documentario sono, infatti, composizioni inedite o pezzi già esistenti eseguiti ed interpretati appositamente per l’opera cinematografica, tra i quali la celebre Liturgia di San Giovanni Crisostomo di Tchaikovsky eseguita dal Coro Cattedrale Ortodossa di Minsk, e una originale interpretazione di Nanneddu Meu impreziosita da ritmi slavi eseguita dal gruppo Music Kvatro Plus. Notevole anche l’apporto artistico di Medūlla, pseudonimo di Michele Salis Figus, cantautore sardo che da anni lavora per regalare all’ascoltatore non solo musica ma l’occasione di vivere una vera e propria esperienza interiore.
Questo film è dedicato quindi alle centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare la propria casa a seguito del disastro di Chernobyl, ai Liquidatori che, con sacrificio e abnegazione, hanno affrontato l’ignoto per mitigare le conseguenze dell’incidente e alle centinaia di migliaia di famiglie in Italia e anche nel resto del mondo, che hanno accolto nelle loro case i bambini di Chernobyl dando significato concreto alla parola solidarietà.
“Le cicogne di Chernobyl” è stato realizzato nell’ambito di un più ampio progetto promosso dall’Associazione Cittadini del Mondo che gode del sostegno della Fondazione di Sardegna in sinergia con la Regione Autonoma della Sardegna e una vasta e capillare rete di partner a livello regionale, nazionale ed internazionale.
Dopo l’esplosione della Centrale di Chernobyl, che ha colpito principalmente la Bielorussia, dove è caduto oltre il 70% del materiale radioattivo rilasciato, si è sviluppato un ampio movimento di solidarietà teso ad ospitare temporaneamente i bambini delle aree contaminate. Questo movimento mirava a favorire un ricambio d’aria che consentisse loro di ridurre drasticamente l’assorbimento di radioattività nell’organismo, grazie alla permanenza in un ambiente non contaminato e a un’alimentazione priva di radionuclidi. Studi hanno dimostrato che un soggiorno di almeno 30 giorni può ridurre fino alla metà il cesio-137 assorbito, riducendo così il rischio di sviluppare tumori, leucemia e altre patologie correlate alla radioattività.
Dai primi anni 90 e sino agli inizi del 2020 l’Italia ha accolto circa 600.000 bambini bielorussi e oltre 100.000 bambini ucraini, nell’ambito dei cosiddetti progetti Chernobyl. L’Italia da sola ha accolto oltre il 60% di tutti i bambini bielorussi ospitati all’estero nei programmi di accoglienza solidale, il nostro paese da solo ha fatto più di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme!
Centinaia sono le associazioni che in tutte le regioni d’Italia hanno organizzato le accoglienze, a volte si tratta di piccole realtà a volte di organizzazioni più strutturate, anche in Sardegna il movimento delle accoglienze si è fortemente sviluppato con oltre 20.000 bambini ospitati dalle famiglie sarde attraverso varie associazioni, alcune delle quali oggi non sono più operative.
Le accoglienze solidali, dato il grande numero di bambini che ha coinvolto, si sono trasformate, in alcuni casi, anche in vere e proprie adozioni che per la gran parte hanno riguardato ragazzi/e in età adolescenziale. Numerose le affiliazioni (ossia le adozioni da maggiorenni) e tante le coppie miste nate in questi quasi quarant’anni di rapporti umani intensi. Tante famiglie sono andate ai matrimoni dei giovani che da bambini erano loro ospiti nei progetti Chernobyl, tanti i ragazzi che il loro viaggio di nozze o le vacanze le trascorrono ospiti delle loro “vecchie famiglie italiane”.
Oggi in Italia e in Sardegna è difficile trovare qualcuno che non sappia, almeno in linea generale, del progetto Chernobyl, perché questo grande movimento di solidarietà ha coinvolto l’intera società italiana senza distinzioni sociali.
Di Massimiliano Perlato
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