È una questione di tempo. Per chi con il tempo ci ha sempre avuto a che fare – l’archeologia e l’archeologo di fatto cercano di recuperare “frammenti” di un tempo perduto -; per noi che guardiamo ai nostri eroi di un tempo con l’occhio struggente della nostalgia che ci riporta ai tempi, si ancora loro, della nostra infanzia; per i nostri eroi che film dopo film invecchiano alla pari dei suoi spettatori, lasciandosi dietro un alone di romanticismo che né le rughe, né i più moderni effetti visivi riescono a dissolvere.
Ed è per questo motivo che “Indiana Jones e il quadrante del destino” non poteva che occuparsi di questa tematica, giocando sul fatto che sia il film definitivo, finale, di una saga che ci ha accompagnato dagli inizi degli anni Ottanta. Ed è questo senso di addio a permettere a questo film scombinato e imperfetto di rimanere in piedi, nonostante tutto. Nonostante i ritmi e il respiro dell’azione fatichino a trovare uno spazio giusto, come se il peso degli anni del professor Jones, con la sua andatura affaticata, abbiano di volutamente rallentato ogni cosa.
Sono lontani i tempi dei salti nel pozzo delle anime di Tanis o della corsa rutilante sui vagoni del tempio dei Thugs; Indy è arrivato alla pensione e non ha più studentesse che si scrivono “i love you” sulle palpebre ma una beat generation annoiata pronta a esplodere con la Summer of love, mentre l’uomo ha appena messo piede sulla luna. Sarà perciò una vecchia avventura, dei tempi della Seconda Guerra Mondiale a rimetterlo suo malgrado in pista con fedora, frusta e capello d’ordinanza, tra nuovi e vecchi amici e soprattutto nemici.
Stavolta l’oggetto cercato, bramato, è il meccanismo di Antikhytera, un orologio meccanico creato da Archimede che permetterebbe addirittura i viaggi attraverso il tempo. Il sogno per qualsiasi archeologo, ma anche per chi invece vorrebbe cambiare la Storia a suo piacimento. Non c’è esoterismo stavolta, nessun misticismo, solo calcoli, numeri, codici, algoritmi. “La teoria va suffragata da dati scientifici” chiosa ad un certo punto, senza dimenticare che tutto alla fine “Deve stare in un museo”, facendo riaffiorare in un lampo il guizzo scintillante di un ragazzino con i capelli biondi che correva veloce su un treno in corsa tra i deserti dello Utah.
Sì perché “Indiana Jones e il quadrante del destino” è un film stratificato al pari di una sezione di un cantiere archeologico, in cui i riferimenti ai film precedenti sono disseminati comunque con criterio, senza essere troppo di impiccio con l’andamento della trama.
E alla fine, mentre lo guardi con malinconia incedere sulla via del tramonto, costellata di fallimenti e rimpianti, pensi: stavolta sono gli anni, sono i chilometri. E sì va benissimo così, perché in fondo basta anche un bacio dato su un gomito in un assolata mattina di settembre per capire che sì, ne è valsa la pena. Ciao zio Indy.
Articolo di Francesco Bellu
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