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Il capitalismo è nemico fino a quando non zittisce un nemico più grande

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L’assoluto ed indiscusso potere mediatico dovrebbe spaventare gli attenti paladini della pluralità. Difficile però smuoverne le coscienze perché, già a partire dai gruppi Facebook di “notizie”, c’è una chiara evidenza sull’impossibilità di svolgere pluralità d’informazione.

Perché diciamocelo chiaro, pensare di poter zittire un personaggio ‘scomodo’ non ha nulla da spartire con i princìpi liberali che, salvo alcune dittature ‘amiche’, dovrebbero governare il mondo.

Eppure la scelta dei colossi come Twitter, Facebook, ma anche Google ed Amazon ha lasciato uno strascico di silenzio ingiustificabile.

Non è accettabile poter decidere chi ha diritto di parola e chi no.

I discorsi e le fake-news hanno surriscaldato gli animi dei Trumpisti fino a condurli all’assalto del Congresso? E allora perchè non pensarci prima? Ma soprattutto perchè operare con due pesi e due misure a seconda di chi dice cosa?

Posto che, come si è visto, un Presidente (anche se degli USA) non è padrone del mondo, la propaganda d’odio sulle stesse piattaforme è accettata e tollerata.

Ad esempio, ai leader di Iran e Cina è concesso alimentare le fake-news o la disinformazione pilotata. La Cina, che sbarra gli accessi a Facebook e Twitter nei propri confini nazionali, utilizza gli stessi social per diffondere e propagandare “la storia gloriosa del Paese”.

Come se non bastasse, le fake-news sul Covid non si riescono a contare: un tweet del People’s Daily China, espressione diretta del Partito Comunista Cinese, cercava di riscrivere l’intera narrativa sullo scoppio della pandemia, identificando nei prodotti surgelati (Italiani) l’origine del focolaio.

Lo stesso profilo rassicurava – mentre venivano massacrati – la situazione sui musulmani dello Xinjiang: “non fatevi ingannare dal demone occidentale, i musulmani sono al sicuro”.

Oppure, senza spostarsi troppo dai recenti accadimenti, Maduro (Venezuela) usa Twitter per diffondere gli ideali della rivoluzione socialista. È curioso come, durante la crisi del 2019, quando 65 governi sparsi per il mondo riconoscevano Guaidò come legittimo presidente, Twitter si affrettava a bloccarne l’account per “incitamento alla violenza”.

Sempre su Twitter, Ali Khamenei scrive: “Israele è un tumore maligno che va rimosso e sradicato. E così accadrà.” Ma ancora: “La Repubblica islamica dell’Iran non dimenticherà mai il martirio di Soleimani e assesterà sicuramente un colpo adeguato agli Stati Uniti”.

Così cinguetta, sempre senza censura, Hassan Nasrallah (Hezbollah): “Il vero flagello della nostra regione è l’esistenza di Israele”.

Forse sarà per via dell’esistenza di tutti questi precedenti di puro odio che Angela Merkel si è espressa con il termine “problematico”, riferito al silenzio imposto a Donald Trump. Steffen Seibert in conferenza stampa dice: “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore e non per decisione di un management aziendale. Questo è il motivo per cui la Cancelliera ritiene problematico che gli account del presidente sui social network siano stati chiusi in maniera definitiva”.

Sulla stessa linea il commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton, che dichiara a Le Figaro: “Il fatto che un CEO possa staccare la spina dell’altoparlante del presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo e bilanciamento è sconcertante. Non è solo una conferma del potere di queste piattaforme, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale. La data dell’8 gennaio 2021 rimarrà come riconoscimento da parte delle piattaforme della loro responsabilità editoriale e del contenuto che trasmettono. L’11 settembre dello spazio informativo. Non possiamo stare a guardare. Dobbiamo stabilire le regole del gioco e organizzare lo spazio informativo con diritti, obblighi e garanzie chiaramente definiti. L’Unione Europea e la nuova amministrazione americana avranno interesse a unire le forze, come alleati che sono del mondo libero”.

D’accordo anche Manfred Weber, capogruppo del PPE, che si è espresso così a Politico.eu: “Non possiamo lasciare che siano le società americane della Big Tech a decidere come discutere e non discutere, cosa si possa e cosa non si possa dire in un discorso democratico. Abbiamo bisogno di un approccio normativo più rigoroso. I meccanismi odierni dividono le nostre società, amplificano posizioni estreme e persino estremiste, distruggono il consenso, la ricerca di compromessi e l’unione di cui abbiamo bisogno nelle società libere e democratiche”.

Il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, evidenzia a France Inter: “Quello che mi sciocca è che sia Twitter a chiudere l’account di Trump. La regolazione dei giganti del web non può essere svolta dalla stessa oligarchia digitale”.

È piuttosto vergognoso come certe sigle politiche, storicamente in prima linea per difendere la pluralità d’informazione, si voltino dall’altra parte in un simile contesto.

Anche in questo caso è bene fare alcune precisazioni sulla presunta “presa” di Capitol Hill. Questo evento senza precedenti, come decantato dai media mainstream, di precedenti ne ha parecchi. Solo appartengono allo schieramento opposto, quindi sono trascurabili.

Premesso che la violenza è necessario condannarla, è curioso capire come si possa dimenticare, in ordine di tempo il primo assalto del 1 Marzo 1954. Gli indipendentisti Portoricani Lolita Lebròn, Rafael Miranda, Andres Figueroa e Irvin Rodrìguez, armati di pistole semiautomatiche ed idee marxiste fecero irruzione nella Camera dei rappresentanti e aprirono il fuoco sui deputati, ferendone cinque. Jimmy Carter li rilasciò dopo più di 30 anni in galera.

Si sono dimenticati della Weather Underground nel 1971, organizzazione di estrema sinistra che piazzò una bomba nel bagno del Senato.

Si sono dimenticati della Resistance Conspiracy nel 1983, formazione Leninista. Bill Clinton graziò gli attentatori una volta arrivato al potere.

Si sono dimenticati persino delle Black Panthers nel 1967 a Sacramento, quando armi in pugno invasero il Parlamento della California.

Due pesi e due misure come sempre, quando si parla di “attacco alla democrazia”.

Articolo di Giomaria Langella

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