Stavo percorrendo per l’ennesima volta lo svincolo maledetto che, evitando Napoli sfiora Salerno, per immettersi in quel Regno d’Italia dove per un’automobilista come me inizia il tormento: ti senti solo, guidando, dappertutto accade, ti senti solo e parti con lo sterzo, ti senti solo e progetti che quello sarà l’ultimo viaggio in macchina: da adesso in poi in aereo e mi paghino se mi vogliono.
La mia macchina impossibile per le lunghe distanze, m’era sembrata così carina, piccola e vivace, dai pochi consumi per il centro di Roma ma, non appena comprata, il centro di Roma fu vietato ai non residenti, fatica sprecata ed inutile: una piccola macchina che vola al vento, non puoi andare troppo forte, la senti sbandare da ogni parte e non c’è mai una spia che faccia la spia quando non c’è acqua, né olio.
Avevo appena imboccata quella brutta curva che lascia alle spalle Salerno e s’immette sulla stretta corsia dove un cartello dice, incattivito e senza pietà: Reggio Calabria chilometri 534, che se poi ne togli otto, dato che tutti o quasi , traghettiamo a Villa S. Giovanni fa 626. Ti sembra di avere avuto lo sconto e cominci a pensare e ripensare perché l’Italia è così lunga e perché queste corsie sono così strette ed i camion così larghi?
Mi sistemo sullo schienale un po’ più dritto come sei i trecento chilometri già fatti siano stati trenta, così mi accade pure al ritorno, nella stessa curva mi sento già a casa!
A casa… non è che metto i puntini tanto per dire e che proprio quando penso a casa, cioè dove abito, mi viene voglia di stare sulla mia piccola macchina a sventare i pericoli di un lungo viaggio verso l’ignoto, e dire che però quando non c’era questa pezza di autostrada, passavo da Vallo della Lucania, dove prendevo, fermandomi, un caffè con la napoletana e gli avventori del bar mi guardavano, lasciando sul tavolo le loro carte da scopa, finché non fossi uscito completamente.
Allora li adoravo i camion e i camionisti, con la neve o con la nebbia soprattutto mi ci mettevo dietro e talora accadeva proprio che fossero loro fermi a quel bar ad invitarmi a seguirli.
Ed io per la gran parte delle volte li seguivo. C’era, allora, quel senso di sicurezza dovuto alla mia totale insicurezza nel percorrere quelle curve con gli scalini delle case sotto le ruote, in piena curva e la velocità massima era di non più di 25 chilometri l’ora.
È certo che adesso mi sarebbe dovuto apparire un sogno, e invece no.
Ero stufo di vendere pentole partendo da Roma ogni mese, ero sì, arcistufo di vedere i miei colleghi far carriera, stare negli uffici con belle segretarie ed io rimasto a sognare un posto fisso: perché non avevo studiato? Perché avevo dato ascolto a mia madre, alla mia fidanzata, ché meglio il posto subito a guadagnare che fare come quegli sciocchi che a quarant’anni vanno ancora all’università, alle spalle dei genitori: questo il destino di chi nasce al sud. Gela in provincia di Caltanissetta, 220 morti ammazzati di mafia l’anno. Qualcuno sarà anche ucciso per altro: possibile che in Sicilia non c’è più un delitto per amore? Glieli abbiamo lasciati al Veneto, alla Romagna?
Avevo almeno deciso di andare a Roma rispondendo a quell’invito allettante di lauti guadagni, rimborso spese, vitto e alloggio. Non appena ho preso la prima busta paga, la benzina è cominciata a salire vertiginosamente, altro che macchina da rappresentante! Avrei dovuto fare il figlio del sabato sera per avere un’auto veloce, bella e sicura.
Mi sentivo seguito, anzi inseguito. Avevo sempre immaginato che mi seguissero i ladri per rapinarmi: avevo infatti scelto le pentole anziché i gioielli, mi dava maggior sicurezza: non c’era stato un gioielliere che non fosse stato rapinato. Oltretutto non mi avevano offerto gioielli veri, ma bigiotteria da boutique, ma al buoi, avevo pensato, si fa presto a prendere una svista.
Ma questa volta la sensazione era forte e chiara: ero seguito! Assolutamente! Guardavo ansioso dietro, ma non c’era nessuno, pochi temerari vanno in gennaio su quelle strade per grandi distanze: ogni tanto qualche auto che però scompariva alla prima uscita.
Era tanto forte la sensazione che al primo rifornimento (qui non c’è la grande area di servizio Motta) mi dovetti fermare, guardare per un po’ le auto che sopraggiungevano e osservare meglio chi si fermava. Niente e nessuno.
Ancora non avevo raggiunto Eboli e la temperatura non era eccessivamente bassa, essendo appena l’una del pomeriggio si stava persino bene, anche se guardando indietro mi rendevo conto che stavano sopraggiungendo delle nubi che, malgrado non troppo nere, non promettevano niente di buono, specie se, col calar della notte, verso Lagonegro o più su ad Attigliano si fossero trasformate in tempesta o neve.
Mi chiesi se effettivamente quelle nuvole così bianche fossero in grado di procurare una tempesta di neve. Sembrano grandi scogli in verticale.
Le nuvole, si sa, fanno parte dei sogni dei bambini, io da piccolo, avrei voluto spesso salirci su, fra loro e la luna, giocare su quel bianco soffice a fermare e modificare quelle figure incantevoli o terribili che formano. Salire su quegli enormi cavalli che rapidi si compongono o fuggire verso il nord in cerca di castelli, anche perché, essendo del sud, ho solo sognato di fuggire a nord. Chissà se altri bambini, con le nuvole hanno mai sognato di cavalcarle verso il sud, dove, oltretutto ce ne sono sempre meno e anche loro sembrano più in corsa. A Gela non si fermavano mai, le nuvole. Solo poche volte, quando i miei mi portarono a Messina avevo la sensazione che occupassero il mondo, da sopra, comandandolo. E poi sfuggivano rapide e noi, ricordo, correvamo in cerca di aquiloni.
Meglio rimettersi in viaggio. Sicuramente mi faranno compagnia. Ho sistemato lo specchietto retrovisore per osservarle, senza essere notato, per giocherellare e far passare il tempo. Capii di essere seguito da loro dopo pochi chilometri: aumentai la velocità con grande tensione al cuore, non volevo sforzare la macchina, era pure sempre una cinquecento! Sebbene non mi avesse dato mai problemi se non per l’angusto spazio e l’insicurezza che mi opprimeva quando facevo percorsi così lunghi.
Le nuvole stavano lì, nello specchietto retrovisore e, mentre guardavo quasi contento della compagnia, vidi prendere corpo, prima i fianchi, poi le gambe, fino ad uno stupendo viso (avete presente La Storia infinita?) un corpo enorme steso sopra il cielo dietro di me. Senza tralasciare di guardare avanti, gettavo indietro l’occhio a quella splendida immagine sognante, ricordava una mia compagna di scuola, mi canzonava sempre e guardandomi fitto mi diceva: “Peppe, ma c’hai la testa sempre tra le nuvole?”
Non avevo mai avuto il coraggio di invitarla ad alcunché, mi resi conto solo a quarant’anni che a Mara, così si chiamava, forse io piacevo. Non appena sposata, mi aveva invitato a casa sua ed il marito non c’era. Mi portò in camera da letto e slacciandosi la vestaglia mi prese la testa ordinandomi:
“Baciami i seni!”
Non so più quello che risposi, ma neppure due minuti dopo ero fuori della sua casa sconvolto, emozionato e, soprattutto, imbecille.
A ripensarci mi vengono i brividi, oltretutto l’ho chiamata dieci anni dopo, aveva quatto figli e non seppi cosa dirle.
La bianca enorme figura s’era trasformata, rimaneva la bocca grande, sempre più grande che parve inghiottirmi.
Ebbi paura e ripresi a guardare la strada, ma quella enorme nuvola nello specchietto digrignava i denti e rideva, rideva, rideva.,
Stavano in cento, in quella strada deserta solo pochi attimi prima, attorno la mia macchina, vicina al cartello che, tristemente nei miei ricordi, recitava Eboli. Guardavano le pentole sparse tutt’intorno, il mio campionario per terra e il solito ladro che, approfittando della folla, porta via quella a pressione, la migliore, la più costosa.
“Eppure non c’è bagnato per terra” diceva uno.
“Un tempo bello come questo, nemmeno una nuvola… sarà stato il sonno, però, a quest’ora!” commentava un altro.
Pian piano salivo verso l’alto, la scena rimpiccoliva e stretto fra i denti della nuvola, finalmente ridevo: era finito infine, quell’ignobile tragitto Roma Reggio Calabria!
di Beppe Costa
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