Ernesto era poeta, non di professione, certo, bensì d’istinto. La sua passione, coltivata sin da piccolo, non aveva lasciato molto spazio agli svaghi comuni a tutti noi ragazzi di giovane età.
Lo si poteva incontrare in qualsiasi ora in ogni parte della città, ma un posto, nel pomeriggio, l’attirava particolarmente: una grossa quercia, che pare avesse ispirato precedentemente ad un suo collega un poema sulla liberazione di una città, che ancora oggi nessuno pare abbia capito da cosa bisognasse liberarla.
Egli, l’Ernesto, andava a sedersi due ore al giorno ai piedi, se così può dirsi, del grosso legno, apriva la cartella con la scritta “Poesie” e più piccolo in basso 1949/1962 prendeva la penna e, succhiandone il cappuccio, lanciava lo sguardo dinnanzi a sé.
Prima o dopo, era certo, avrebbe scritto la sua seconda lirica in quel luogo, che aveva scoperto grazie ad un amico:
«Vedi?»
«Cosa?»
«La Quercia, quella del Poeta, non lo sai?»
«Sì, certamente, come no!» aveva mentito.
«Pare – aveva proseguito l’amico – che qui abbia trovato il toccasana per i suoi nervi». E così che l’Ernesto, carpetta sulle gambe, penna fra le labbra e fogli, rimaneva aspettando che la visione di quel luogo si fondesse con le splendide idee che sicuramente aveva, se non proprio in testa, almeno nel profondo dell’io e si riversasse infine, attraverso il meccanismo braccio-mano-penna, sulla carta.
Ogni giorno, un po’ per consolarsi, un po’ per ripasso, quasi allo scoccare delle due ore, girava il foglio a sinistra della carpetta, portando alla luce la sua unica poesia, il suo capolavoro e leggeva; intanto era l’anno 1962.
Certo, a voler considerare, questa l’aveva scritta nel ’49 e rimaneva fondamentale, però, anche se si ha certamente bisogno di maturazione e nulla comunque si fa in un giorno, un’altra avrebbe dovuto scriverla entro quell’anno, sennò avrebbe dovuto cambiare targa alla carpetta.
Poesia
«Trovavo per caso fra le cose storte
un pensiero nella mia testa:
la sicurezza che a farmi la festa
sarebbe stata la vista delle cose morte»
Ritrovava coraggio ed era felice, non sapeva se trattasse di quartine, quaterne, terzine o cinquine, però nel lontano 1949 egli era così profondo e mica per niente di facile comprensione?
Aveva rinunciato a tutto, c’era stata Elisa così disposta ad amarlo; per tanto tempo gli era stata dietro! Aspettando che la smettesse con l’aria lugubre e la tragedia d’artista e Giovanna, anche lei: “in fondo, sei carino! perché devi pensare?”
Lui no. Che poeta sarebbe mai potuto diventare senza tremende delusioni d’amore od almeno il desiderio cocente di soddisfare il corpo? Bisogna ammettere che Ernesto era bello, ma così bello che ancora oggi ci si stupisce che potesse esser poeta! Forse che è difficile con un bel fisico offrire lo stesso d’amore? bah!
La mattina che Giorgio lo trovò appeso con la carpetta in terra e la lingua in fuori si chiese se non ci fosse adesso il rischio che quella potesse diventare la quercia del trapasso ed il pericolo che adesso correvano tanti altri aspiranti poeti essendosi ormai chiuso il primo ciclo: Liberazione e Morte!
Beppe Costa
La foto in copertina è di Dino Ignani.
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