Tutto soddisfatto Marco se ne tornava a casa a piedi.
La sua ultima mostra alla Galleria Due Mondi l’aveva, se ce ne fosse stato ancora bisogno, consacrato al mondo dell’Arte.
Erano stati venduti tutti i suoi pezzi e a un buon prezzo. Pensare che solo qualche anno prima sarebbe stato già felicissimo di riprendere i soldi delle spese, quando, costretto a girare con le sue tele da una galleria all’altra della città, le offriva in cambio magari del solo cibo. Ogni volta l’avevano ricacciato indietro adducendo vari motivi: troppo semplice! troppo comune! troppo difficile! oppure: ci vuole la novità, la creazione, il critico di fama, siamo impegnati!
Sarebbe tornato senz’altro al paese, se l’orgoglio non glielo avesse impedito: almeno lì era l’unico pittore e lo incoraggiavano di continuo anche se, a guardar bene, s’era un po’ parenti con tutti. E, ad ogni festa, regalava un pezzo, non potendo spendere d’altro.
No. Non sarebbe tornato affatto, ricordava la promessa fatta: «diverrò famoso, mamma, vedrai, potremo mandare Gino in una buona scuola ed avremo una casa tutta nostra». Leggeva sui giornali tutto ciò che riguardava mostre di colleghi più fortunati, per scoprire quello che non andava nel suo accoppiamento del colore, nella sua sensibilità, nei contorni, nei soggetti, o in ciò che chiamavano il ritmo e quando andava a vedere talune opere tanto decantate, si trovava dinnanzi a scarabocchi assurdi che anche lui, certo, avrebbe saputo fare.
Fu senza dubbio un caso che, con gli ultimi soldi, anziché comprare due uova e un pezzo di pane, comprò i racconti di Kafka, forse perché affascinato dall’enorme pila che tanta presa faceva dalla vetrina del libraio.
Così quella sera, per recuperare le trecentocinquantalire spese, si mise a leggere, anziché dipingere.
La notte non dormì tranquillo affatto, l’immagine di un mostruoso insetto incombeva su di lui, soffocandolo e il giorno dopo si sentì carico di ignare apprensioni.
Si scoprì a guardare intorno la sua stanza, come non l’avesse mai vista, che comunque non aveva mai pulito: notò per la prima volta, sicuro, ragnatele e macchie di colore e muffa sui muri; dall’unica finestra posta in alto, non entrava abbastanza aria da toglierne il puzzo, insomma, in breve, si rivide lui, scarafaggio Gregorio Samsa ridotto in una tana in compagnia dei topi.
Fu allora preso da violenta rabbia, da un furore chissà da quanto trattenuto. Sbattendo da un punto all’altro della stanza le sue poche cose e notando infine quella tela ancora bianca sul cavalletto che sembrava fissarlo interrogativamente, le andò incontro cogitando scarabocchi e scarafaggi.
Raccolse con le mani tutta la sporcizia e i ragni che poté e, dopo averli immersi nei barattoli dei pochi colori che ancora gli restavano, si mise a colpirla ripetutamente. Con quella tela grondante si avviò di corsa verso quella che riteneva la più prestigiosa galleria d’arte della città e, piantandosi davanti al personaggio che per eleganza e gestire gli parve il direttore, disse:
Un passo dietro Marco una voce scaraventò fuori in pochissimi istanti milioni di parole, intere o semplici sillabe non capì o così gli parve; giratosi, riprendendosi la tela, fece per fuggire, conscio della figura ridicola ma insieme soddisfatto per la lezione data.«Ecco, è questo ciò che volete!? Eh!» e per la prima volta in quella sua giornata, usando una calma glaciale che non si conosceva, sbatté, davanti agli occhi del direttore, l’opera.
«No, giovanotto! Date un po’ qua!» la voce perentoria usciva da sotto un paio di baffi che avrebbero coperto senz’altro una faccia come la sua, ma non certamente quella dell’enorme personaggio che faceva da parete davanti a Marco, impaurendolo.
La parete, battendogli una mano sulla spalla, diceva:
«Uno stile è creato! Ecco la chiara visione di ciò che si può fare col massimo della propria personalità unita ad un po’ di impersonalità! Signore, voi siete un artista! Francesco! – chiamò, roteando gli occhi per il salone – esigo le opere di… come avete detto di chiamarvi?»
«Greg… Marco Venturi».
«Dategli un acconto e garantitevi tutte le sue opere!»
Fu così che Marco, come si dice, più confuso che persuaso, tornò a casa e, se non fosse stato per tutto quel denaro che aveva in tasca, avrebbe pensato ad un sogno, a una burla.
Il problema, ripresosi, era come fare ad arrabbiarsi tanto da creare un altro capolavoro! Adesso.
Dopo avere inutilmente pensato, ricordò il denaro e il suo stomaco. Da quanto tempo non mangiava così? In quel momento scoprì l’esattezza del detto: «La fame aiuta la produzione degli ingegni!» La stanza adesso era più ordinata e pulita, persino i guanti aveva messo per dipingere, ma… cos’erano tutte quelle scatolette chiuse ed ordinate ben bene in fila? Marco prese una pinzetta, già… dov’erano i pennelli?
Tirò fuori con essa, da una di quelle scatolette, un affare nero, lo immerse nel barattolo del colore ed infine lo depositò con dolcezza sulla tela; ripeté ancora diverse volte l’operazione, finché non vi furono dieci o quindici animaletti sgambettanti che la percorrevano in tutti i sensi.
Ogni tanto Marco ne tirava su uno, guardava la tela con occhi critici, socchiudeva il sinistro, dilatava il destro, quindi con soddisfazione riimmergeva gli insetti in un altro barattolo di vernice, depositandoli ancora su quello che ormai era un quadro!
Io, che ho visto tutto ciò, credetemi, non posso chiamare quei piccoli artisti semplicemente scarafaggi e insetti. Marco non era solo il Maestro, ma anche il loro servitore, il loro assistente sociale, il loro medico. Con quanta cura li ripuliva ad opera compiuta e se qualcuno di essi moriva soffocato, non vi nascondo che Marco ne soffriva; con altrettanta cura lo avvolgeva nel cotone, poi in un barattolino così avvolto lo buttava nel secchio della spazzatura e, mentre tentava di reprimere una lacrima, facendosi forza, pensava all’altro detto:
“L’Arte esige pure qualche vittima!”
Beppe Costa
Comment here