Per molti sembrano grandi entità inarrivabili, delle vere e proprie divinità del mondo 2.0, quello interamente digitalizzato in cui i big data contano di più delle persone. Sono le Big Tech della Silicon Valley e sono le società che dominano il mercato tecnologico con i loro colossi di facciata che, per citarne qualcuno, conosciamo come Google, Facebook, Apple, Microsoft e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Sono colossi digitali che, in quanto tali, sembrano inattaccabili da quello che oggi è il problema più grande del mondo reale, il coronavirus, ma a cui anche loro non sono affatto immuni; anzi, sono tra i primi e più importanti contagiati. Li chiamiamo colossi perché ormai per fatturato e “conoscenze” sono diventati più importanti addirittura dei singoli stati.
E non è un caso che al tavolo delle trattative con il governo degli Stati Uniti, per gestire l’emergenza coronavirus, siano stati invitati rappresentanti di tutte queste società. Per chi è too big to fail a livello globale, agire ed intervenire in questo momento di crisi è divenuto vitale e la collaborazione con il governo Trump diventerà il punto di partenza anche per le evoluzioni future. Ma cosa interessa e cosa vuole davvero il presidente degli USA da società come Google, Amazon & co.? La risposta non va cercata nei servizi che offrono, bensì nei dati che raccolgono grazie al consenso degli utenti al momento dell’iscrizione ai loro portali e, tendenzialmente, protetti dalla privacy.
Il governo USA (ed a cascata tutti gli altri ad esso collegati) sta provando ad elaborare dei modelli di diffusione del virus tracciando i contagi attraverso i contatti delle persone.
Ma per farlo serve l’accesso alla banca dati di queste piattaforme.
È giusto fornire questi dati ai governi?
È corretto “tradire” la fiducia riposta dagli utenti nei sistemi?
E, cosa più importante, questa scelta come si ripercuoterà sui conti delle aziende?
È partendo da questa ultima domanda, e dal caso più eclatante accaduto negli ultimi anni, che possiamo capire quanto il coronavirus stia affliggendo anche le Big Tech.
Il caso in questione è quello dello scandalo Cambridge Analitica, che ha coinvolto Facebook e l’utilizzo dei suoi big data per “condizionare” le ultime elezioni americane. Uno scandalo dal quale l’azienda di Zuckerberg ha fatto fatica a rialzarsi dal punto di vista economico e che, tutt’ora, mantiene i dati del social network in forte calo soprattutto per la sensazione di “mancanza di fiducia” che persiste da parte dei suoi e soprattutto dei potenziali nuovi utenti.
La fiducia degli utenti è quindi oggi la merce che ha più valore per queste aziende, ed in quest’ottica vanno sottolineati anche i grandi investimenti che realtà come Facebook e Google stanno mettendo in atto per la rimozione e il contenimento di quella che per qualcuno risulta “controinformazione” mentre per molti altri si tratta semplicemente di clamorose fake news. Sono tanti gli articoli, i link ed i video rimossi dal web perché mirati a “lucrare” sul coronavirus. Come sono tante le scelte “editoriali” volte a contenere la diffusione di notizie non autorevoli o non verificate.
Ciò che fa strano è vedere come queste aziende chiedano fiducia ai propri utenti ma non siano disposte a concederle ai propri dipendenti che sono quasi forzati, al limite della paranoia, a non usufruire dello smartworking per la paura di poter divulgare o rompere gli accordi di privacy sottoscritti con i datori di lavoro.
È il caso di Microsoft ed Apple, che hanno addirittura attrezzato laboratori dotati di termoscanner in stile aeroporti pur di non rischiare violazioni del segreto industriale.
Se il problema della gestione dei dati personali condizionerà le Big Tech nel futuro, sono già iniziati invece i primi provvedimenti per cercare di limitare le perdite che questi colossi tecnologici stanno riscontrando nel mondo reale.
E questo non riguarda soltanto la riduzione del flusso di banda (la quale si avvicina al collasso per molti) che ha costretto l’Unione Europea a chiedere a Netflix e Youtube di ridurre la qualità del proprio streaming e che sta spingendo lo stesso Zuckerberg a lanciare l’allarme per l’utilizzo sfrenato dei server di Whatsapp e Messenger perché potrebbero non reggere ad un ulteriore incremento.
Tutte queste aziende controllano anche società ed attività terze ad esse collegate.
L’esempio per Netflix è la produzione di Serie TV e Film, o per Amazon la consegna di beni non di prima necessità.
Tutti servizi sospesi e che stanno spingendo le quotazioni di tutte le società in Borsa verso minimi storici mai toccati prima, bruciando capitali vitali per la gestione dell’emergenza.
Big data, fiducia, banda, produttività e uomo, rigorosamente in quest’ordine.
Il coronavirus sta condizionando ognuno di questi 5 elementi su cui si fondano anche i colossi della tecnologia che fino ad oggi hanno dominato il mondo. Entità che non sono immuni e che, al contrario, sono già malate. Riusciranno a trovare un vaccino (tecnologico certo) a questa epidemia? Anche così si potrà uscire presto da questa crisi: del resto è questione di fiducia… e di dati.
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