I giovani di oggi, spesso bersaglio di critica gratuita e tante volte infondata, in realtà avrebbero più di qualcosa da dire. Purtroppo, salvo alcune rarissime eccezioni, gli spazi a loro destinati sono preclusi in favore di tante notizie – talvolta inutili – che fanno più “audience”. Uscendo volutamente da questo modo di fare vetusto e fuori tempo massimo, con gli infiniti ringraziamenti al “MIO” direttore che non batte ciglio quando si trova davanti a nuove sfide editoriali, ho voluto creare uno spazio con la speranza, nel tempo, di diventare il collante tra due mondi che difficilmente riescono ad interagire senza pregiudizi di sorta e senza ipocrisia. Questo perchè, quando ripenso alla mia “giovinezza”, ammetto che mi sarebbe piaciuto tantissimo trovare un posto, anche virtuale, nel quale poter parlare liberamente ai troppi che facevano fatica (e che tutt’oggi faticano) a comprendere quelle dinamiche sociali che, volenti o nolenti, viaggiano e cambiano alla velocità della luce. Ripenso a quando c’ero io dall’altra parte, arrabbiato con il mondo e con le ingiustizie derivanti: purtroppo quella rabbia non la sfogai con testi musicali perchè mi feci sedurre e sotto certi aspetti abbindolare dal “mondo di mezzo”, la sottile linea che separa la legalità dall’illegalità.
Ricordo quando, ritrovatomi piccolissimo nell’estrema periferia milanese, iniziavo ad avvertire le tensioni di classe, di razza, di branco: e lì c’è poco da fare, o cresci in fretta o giri con l’appellativo di coniglio. E quando dico “cresci in fretta”, intendo che poi i racconti dei miei amici sardi 18enni in preda alle prime esperienze, a me quattordicenne suonavano come vecchie, già vissute, già affrontate e già risolte. Incluso il sesso, incluse le risse, inclusi tutti quegli argomenti che molti bigotti di oggi fanno finta di dimenticare. Questo lo scrivo per evitare inutili scoop e gossip sulla mia persona: non potete capire ciò che non avete vissuto o che avete solo sentito al telegiornale. Ricordo bene quando un bar andava evitato “perchè è dei calabresi” ed io stupito mi domandavo cosa significasse: io sono sardo, quindi? Crescendo, capisci che quello era un bar di ‘ndranghetisti utile a coprire attività criminose. Con noi in compagnia c’era un certo Piromallo, nipote dei boss della cosca, ma per noi era un ragazzo qualunque. Eppure non me ne capacitavo, la mia famiglia mi parlava di un mondo stile palla ovattata nel quale chiunque potesse ritagliarsi il proprio spazio. Mio papà faceva il custode nel fondo pensionistico della BNL, mia madre lavorava in una clinica di prestigio in pieno centro a Milano: ma non vivevano il sommerso, non capivano la vera realtà che mi trovavo ad affrontare. Lì fuori non c’era posto per tutti, prevaleva la legge del “più”: il più forte, il più figo, il più alla moda, il più ricco, il più sfigato. Se non rientravi in quelle categorie, semplicemente non eri nessuno. L’alternativa era un’etichetta di presunto prestigio da cucirti addosso e che al tempo stesso incutesse timore agli altri: si chiama adattamento, sopravvivenza, ma chi non l’ha vissuto non può capirlo.
Io ricordo bene che certe zone erano off-limits perchè “ci sono gli albanesi, ci sono gli zingari” e quindi non ci si può passare. Ma non era un discorso relegato alla periferia: anche in centro esistevano queste tensioni. In metropolitana bastava uno sguardo di troppo alla persona sbagliata che “faceva brutto” per veder spuntare le lame, le catene o peggio. C’erano poi le zone di controllo dei gruppi politici o musicali: in via Torino i Gabber, in San Babila i rapper, altrove i Sanca (San Carlini), i punk, i metallari, gli skin, i compagni dei centri sociali. E se passavi nel quartiere sbagliato, vestito nel modo sbagliato, erano botte, inutile girarci attorno. Un altro esempio lampante dell’aria pesante che respiravamo, nel lungo tragitto in metropolitana per andare allo stadio, era la fermata Lampugnano: dalle 21 quella zona diventata di controllo sudamericano, con peruviani e cileni che presidiviano le uscite della metro per trovare il pollo da rapinare. Girava il mito che fossero pesantemente armati: qualcuno si chiederà come sia possibile che una grande città cambi così drasticamente dal giorno alla notte, io invece non mi meraviglio quando sento che in Lombardia si sono infiltrate organizzazioni come MS-13 ed hanno stanza, guarda caso, proprio a Lampugnano. Vogliamo parlare di Viale Jenner, totalmente in mano ai fondamentalisti islamici? Si stupiscono quando poi dalle intercettazioni emerge che qualche ‘imam’ progettasse attentati e facesse proselitismo in moschea. La realtà è che l’ipocrisia domina tutto, e nella mia esperienza posso affermare senza esitazione che l’integrazione non interessa proprio a nessuno. Come sempre ci sono due scelte: girare la faccia e far finta che i problemi non esistano oppure parlarne cercando però di capire quali sentimenti muovano e decretino queste appartenenze. La soluzione che io ho sempre riscontrato è la più facile: giudizio. Giudizio e schifoso pregiudizio.
Sono stato escluso da selezioni di lavoro per i miei tatuaggi, considerati troppo vistosi. Mi è stato imposto di coprire il collo con una sciarpa in pieno Agosto perchè a Porto Cervo era uno scandalo vedere un addetto alla sicurezza così conciato (tatuato). Al Festival del Cinema di Venezia, il Presidente Napolitano rifiutò una foto-ricordo perchè il suo addetto alla sicurezza mi considerava pericoloso: pesavo 115kg, ero palestrato, rasato e tatuato, descrizione perfetta di un potenziale delinquente. Parlo del 2011, non di un secolo fa. Ed allora, chi non si è mai ritrovato in determinate situazioni, come può arrogarsi il diritto di giudicare a priori un qualcosa che non conosce o che fatica a comprendere?
Il mio non vuole essere assolutamente un processo alle intenzioni od a quanto sarei diventato importante senza tatuaggi od ancora a quanto non sia stata capita la mia rabbia giovanile. È un introduzione a temi che, a quasi 10 anni di distanza, non sono minimamente cambiati e nei quali mi rispecchio in pieno, pur avendo visioni “più mature” su tante tematiche: i grandi non capiscono i piccoli, i piccoli non capiscono i grandi e nessuno però fa nulla per avvicinare le parti. Ho scelto Christian, tra i tanti, perchè alcuni suoi pezzi mi hanno incuriosito ed a tratti quasi infastidito in senso positivo: usiamo il paraocchi senza renderci conto di quello che facevamo noi alla loro età. E se già un salto generazionale segna una netta distinzione su tantissimi argomenti, figuriamoci quanto siano abissali 2/3 salti in più. Un 50enne riesce oggi a capire le problematiche di un 20enne? Difficile. Ma è altrettanto difficile anche per un quarantenne. Ed un 20enne, quando parla un quarantenne, riesce a capirlo? Non sempre, o non così facilmente come si crede. Chiusa l’introduzione sul mio passato lascio spazio a Tuve, che a soli 19 anni ha prodotto un EP e che vanta un discreto seguito sui vari canali di comunicazione.
Quali sono state le tue influenze musicali e perchè hai scelto proprio il genere rap?
Da piccolissimo i miei genitori ascoltavano musica leggera italiana. Sono cresciuto ascoltando e memorizzando quei testi, fino ai 7anni, quando mio cugino mi fece ascoltare un cd di Eminem: mi colpì la copertina di una mano che teneva in mano il mondo. (L’album in questione è D-12 – World, 2004). Paradossalmente, il film su Eminem l’ho visto di recente, non sono quindi stato influenzato da 8 Miles Road. Mi piacevano moltissimo le sonorità, ma non capivo una parola di quello che dicevano: a differenza di tanti, ho completamente mollato il rap americano concentrandomi di più su quelli che considero ancora oggi i pezzi da 90 nostrani: Gue Pequeno, Jake La Furia, Marracash. A me non piaceva nessun genere di sport, ascoltavo solo musica: scrissi il primo pezzo in quinta elementare, non ricordo il testo ma ricordo che avevo copiato una base gratuita da YouTube e ci avevo scritto sopra. Quando ad 11 anni uscivo con le magliette dei Club Dogo venivo deriso: il rap non era ancora la “moda” del momento. Per me però rappresentava quanto di più attinente possibile con la realtà che vivevo e le situazioni con le quali entravo in contatto. Il rap mi ha aiutato a vincere la timidezza, che era un mio grande fardello: mi ha svezzato in tutti i sensi, mi ha soprattutto cresciuto. Tornando agli artisti che ti ho citato, definirei Gue Pequeno una “corsa contro il tempo”, Jake “grosso, ma più adatto per quei tempi”, Marracash “un profondo genio musicale, scrive pezzi incredibili”.
Nei tuoi pezzi si parla spesso di piazza, strada, marciapiede: l’appartenenza, per un rapper Sardo, ha significato?
Non credo possa esistere questo senso di appartenenza. Credo invece che sia più facile fare successo in altre realtà: a Milano, per esempio, è molto più semplice essere notati da una casa discografica anche senza YouTube ed altri canali. Il senso della Piazza però ha un grande significato, parte tutto da lì! Il nostro freestyle proviene dalla piazza: ci trovavamo alle torri di Carbonia per fare le gare e giudicare chi spaccava di più rispetto agli altri. Ricordo con il sorriso due povere signore residenti che venivano puntualmente a cacciarci via per colpa della musica troppo alta. Parlando di Sardegna in generale, oltre Salmo non c’è nessuno che sia riuscito realmente a conquistare la scena: lui ha il mio rispetto totale nonchè la mia ammirazione, ma oltre al talento si è inventato un tipo di rap completamente sconosciuto per quei tempi. Poi scelse di apparire in maschera, insomma tutta una serie di elementi, uniti al suo grande talento, che gli hanno permesso di raggiungere le vette e rimanere al top fino ad oggi. Altri artisti invece o non hanno saputo gestire la pressione mediatica o sono stati vittime inconsapevoli di sè stessi: penso ad esempio a Madh. Il talent-show è come una medaglia, ha 2 lati. Dopo X-Factor nessuno ne parla più: nemmeno la collaborazione con Baby K gli ha permesso di fare realmente successo. Ma in generale, le collaborazioni non significano nulla, c’è persino chi vende il proprio nome da aggiungere dopo “feat.” Invece guarda Massimo Pericolo: lui si è costruito dal nulla, e pur facendo un genere che non apprezzo (la trap), è emerso perchè scrive argomenti reali e diversi dal “mi drogo, mi distruggo, faccio sesso”.
Il troppo successo, se non hai carattere, ti divora.
Nel dibattito politico ci sono tante sigle che si riempiono la bocca di lotta al pregiudizio. Secondo te il pregiudizio esiste?
Il pregiudizio verso la scena rap esiste perchè noi diciamo le cose in maniera esplicita, cruda, reale. Rispetto ai primi grandi successi del genere (Fibra, Neffa) ti dico che vent’anni sono troppo pochi per cambiare una mentalità estremamente diffusa. I miei genitori ascoltavano per esempio Vasco Rossi, che per alcuni ai tempi era macabro, ecco lui certi argomenti li trattava comunque in maniera fine e velata, dovevi essere molto intelligente per capirne il reale significato. E ti dico che il fatto che il rap domini le classifiche praticamente nel panorama mondiale non significa affatto che i testi vengano capiti. Rimane solo il ritornello, non il significato di quell’opera. Ma oltre al pregiudizio c’è un invidia che divora l’animo: tanti miei coetanei mi criticano, ma sono sicuro che non avrebbero mai il coraggio di prendere un microfono e cantare il proprio pensiero davanti a 3-400 persone. Che non sono tantissime, ma iniziano a farti tremare le gambe. Penso che i classici valori si siano completamente persi, ed in questo dò molta colpa ai social: tutti vogliono costruire IL personaggio, perdendo di vista ciò che conta davvero e cioè un lavoro, una persona da amare. Fuori dal personaggio credo si sentano molto soli e per questo hanno bisogno di compensare con dirette Instagram o continui servizi mentre fanno shopping milionario. Il rap non è questo, non mi ci rivedo. Accetto lo “schiaffo morale” dell’esibire ciò che si è ottenuto, ma non tramite i social. Non mi piace, tanto per farti un esempio, l’estremo esibizionismo di Fedez, che non ha risparmiato neppure il figlio. Posso dirti che vestire di marca fa più figo, sei sul pezzo, ma se hai hype puoi tranquillamente vestire da Bershka che la gente ti riconosce lo stesso. Di contro, se sei tutto marcato e fai musica pessima, resti un pessimo che si veste bene.
Spesso i fan criticano un artista per non essere più quello di prima. Anche Capo Plaza ha dichiarato che la nuova scena rap sia letteralmente superiore alla vecchia. Tu come la vedi?
Plaza è molto bravo, ma non si può fare un paragone. Anche perchè è vero che indubbiamente la musicalità sia migliorata, ma di contro i testi si sono completamente svuotati. Anche i mezzi di diffusione sono completamente diversi: oggi esiste Spotify, Fabri Fibra non lo aveva. Ma sfiderei chiunque a fare un album senza promo e conquistare il disco d’oro come ha fatto FF con Squallor. O restare in silenzio per 3 anni come Marracash e poi uscire fuori con Persona e sbaragliare le classifiche, ristabilendo le distanze. Massimo rispetto per i precursori della scena. Se poi vogliamo parlare di freestyle, ti dico che personalmente ho perso l’allenamento. Ma in Italia abbiamo un king assoluto, Ensi: anche Clementino è molto bravo, però non apprezzo le sue troppe strofe in napoletano stretto, non riesco a capirle. Un altro grande è Emis Killa, con Andale è tornato a spaccare. Comunque non ha senso parlare di tradizione nell’arte, non lo capisco. Quando criticano Fibra per non essere più quello di ‘Uomini di mare’ sono degli stupidi: la scena è matura, il cambiamento è costante, non avrebbe alcun senso nel 2020 riproporre roba troppa vecchia. Farebbero forse meglio a capirne i testi ed i profondi messaggi. Ad ogni modo, molti pensano che cantare velocemente equivalga a fare rap: niente di più sbagliato, basta vedere Baby K, erroneamente definita una rapper donna. A parte il fatto che ahimè, il rap è un genere molto maschilista, però per me lei è una cantante pop che fa pezzi ultrapopolari. Invece è bravissima Madame. Non mi spiego il successo di Anna: quel pezzo (Bando) non dice nulla di nulla, eppure è salito alla ribalta. Vedi, Spotify fa anche questo! Io comunque non mi abbasserei mai a certi livelli, non ho interesse nel successo fine a sè stesso. Non farei mai il Fedez della situazione.
La scuola: percorso di formazione o di abbandono prematuro?
Parli con uno che ha abbandonato gli studi molto presto, anche se sto rimediando adesso con le serali. Per come è pensata la trovo estremamente noiosa, zero stimoli, zero tutto. Però io non mi sono ritirato per campare alle spalle dei miei, sono andato a lavorare, giovanissimo: manovale, volantinatore, commesso al supermercato. Non posso nemmeno permettermi di vivere alle spalle dei miei, la situazione non è rosea ma comunque preferisco spendere i soldi che ho guadagnato con il mio lavoro. Troppi invece restano a casa senza far nulla e nulla otterranno dalla vita. La svolta che tanto attendono non arriverà mai, guardano i trapper che salgono alla ribalta pensando che sia grazie ad una canzone. Anche qui niente di più sbagliato, c’è gente che scrive da quando ha 11-12 anni e riesce a svoltare magari a 17-18. Per 6-7 anni quella gente ha mangiato pane duro e cipolle e nessuno sà niente, i fan vedono solo la punta dell’iceberg. La scuola serve, andrebbe sicuramente ammodernata ma senza cultura siamo spacciati.
Partenza EP è stato il tuo primo album. Com’è andata?
Sono molto soddisfatto, soprattutto per i bei ricordi che richiama. Era tutto molto spontaneo e divertente, niente di costruito insomma. A livello di visualizzazioni e riscontri è andata molto bene, ci hanno chiamato in tutti i locali del Sulcis. L’avvenimento che ricordo con estremo piacere riguarda La Favola a Sant’Antioco: sui ritornelli, la gente cantava a memoria le strofe. È stato molto appagante!
Recentemente ha ripreso il calcio, una grande passione italiana. Sono seguite feroci critiche per l’esibizione di Sergio Sylvestre: cosa pensi a riguardo?
Personalmente mi ha fatto molto piacere vederlo lì. È vero, è un prodotto dei talent, ma ha una voce incredibile. E comunque, dopo i fatti accaduti in America, era giusto far esibire lui. Ha sbagliato? Chi se ne frega, anche Katia Ricciarelli sbagliò ma nessuno disse niente. Le trovo inutili polemiche. Hanno anche stancato di parlare di un problema razzista in Italia: l’Italiano purtroppo è razzista, fine della storia. Negli USA la situazione sociale è completamente diversa, inutile cercare soluzioni da lontano. Quando ti dico che l’italiano è razzista intendo che anche chi parla di “diritti” in realtà non ha il benchè minimo interesse, parla per convenienza. Perchè poi magari gli piomba l’extra-comunitario nel palazzo e lo “scandalo” li porta a cambiare casa. Però tra i giovani questa componente sta diminuendo, son contento di ciò. Per me l’importante è comportarsi bene, nero bianco o giallo poco importa. Penso che questo problema possa risolverlo solo la generazione dei miei ipotetici futuri figli, se saremo bravi a crescerli: adesso è utopico pensare di risolvere un problema che ci caratterizza, è intriso dentro di noi e non possiamo farci nulla. Anche nelle piccole cose un giudizio razzista viene scambiato per una battuta: ma poi, esistono ancora pregiudizi per i tatuaggi e vuoi che non esistano per il colore della pelle? Io non mi sono tatuato perchè ho paura che, una volta iniziato, non riuscirò a smettere. Ma non ho alcun pregiudizio di sorta: purtroppo però questo pensiero esiste, lo riscontro anche nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda il calcio mi fa sorridere il fatto che prima i ragazzini volessero fare i calciatori ed oggi tutti vogliano invece diventare dei rapper: perchè pensano che gli allenamenti siano noiosi, un impegno troppo grande da sostenere a lungo. Con la musica non gli andrà certo meglio: non è un gioco da ragazzi, non puoi far musica con la speranza di farti una ragazza in più, se ne accorgeranno e sarai tagliato fuori per sempre.
Per molti strada equivale a delinquenza: sei d’accordo?
Assolutamente no. Io parlo di strada ed intendo il trovarci fuori e fare sempre festa per la gioia di stare insieme: chi vive realmente la criminalità non lo dice, sarebbe solo uno stupido. Molti fanno vanto di grandi azioni nei propri testi, ma credo che siano esclusivamente frutto di finzione.
Esiste una mancanza di connessione tra la classe politica e la vita reale? La musica, per un giovane, cosa può fare?
Il rap può aiutarti a capire tanto. Gli artisti famosi però dovrebbero parlare di più dei problemi che hanno vissuto e superato: invece i mezzi “main-stream” si concentrano su collane, scarpe… una schifezza! I giovani, se non cercano il riscatto e si fasciano la testa di problemi, di disagi, di domande complicate… finiranno per esaurirsi. In primis però è il lavoro che ti aiuta nel riscatto. Ad esempio, a livello locale, sento tanti problemi con gli appalti, spesso affidati a ditte napoletane o siciliane: possibile che nel Sulcis non ci sia un’impresa in grado di realizzare queste opere? Si creerebbero posti di lavoro ed in tanti potrebbero smettere di alternare PlayStation e TV in un turbinìo di vuoto perenne. Personalmente con i miei amici mi capita raramente di parlare di politica e quando lo facciamo vince il menefreghismo, una totale disillusione: si parte dal presupposto che tanto non cambierà mai nulla. Non mi ci ritrovo, perchè comunque il voto dovrebbe contare e potremmo anche noi dire la nostra. Ma è difficile capire i meccanismi che muovono certe scelte: non c’è confronto, non si capisce ciò che dicono. Siamo ignoranti sotto questo aspetto, lo ammetto: ma è altrettanto vero che non c’è nessun interesse a darci un minimo di coinvolgimento e di formazione. I giovani non cercano da soli una via d’uscita, hanno bisogno di guide, esempi positivi: non trovandole, si rifugiano nei social, prendendo come esempio tutti i comportamenti sbagliati di presunti Influencer o Notorius. Se potessi arrivare al Sindaco o a qualcuno che prende decisioni nel territorio, proporrei subito 3 punti cardine: un centro di aggregazione per giovani, perchè non sono tutti tossici al contrario di ciò che pensano molti. Le canne esistono, ma qualcuno fa realmente qualcosa per evitarle? Non mi risulta. Esiste tanto altro, che per me è peggiore, ma se non c’è modo di mostrare un’alternativa si finisce inevitabilmente per essere attratti da droghe pesanti e da tutti i guai che ne conseguono. Non intendo un centro sociale, ma uno spazio di aggregazione concesso dal Comune a titolo gratuito dove poter praticare sport, musica, arte in genere. Chiederei uno spazio culturale di reale confronto, fatto di parole semplici: la biblioteca è uno spazio inadeguato, insufficiente, come lo sono i musei. Per molti sono cose pallose, ormai esistono altri strumenti tecnologici e le visite guidate non fanno breccia nei nostri cuori. Penserei ad un cinema gratuito con film educativi: certo, sarebbe comunque un prodotto virtuale, ma potrebbe essere integrato con appuntamenti mirati di formazione, anche politica perchè no. Sarebbe bello capire i piani per il futuro della città fuori dalla campagna elettorale. Un altro grande problema è la totale apatia verso la lettura: nessuno legge, l’ignoranza galoppa, i ragazzi sono molto svogliati in generale. La musica mi ha salvato da questo “stile” di vita. Un elemento di riflessione lo dedico a quei ragazzi che invece vogliono studiare ma non possono perchè le famiglie non riescono a sostentarli: il Comune potrebbe creare dei fondi da destinare ai ragazzi meritevoli, diversi dalla classica Borsa di Studio. Le persone han problemi anche a spostarsi in treno e comprare il biglietto, la Borsa è una cosa èlitaria.
Recentemente, l’emergenza coronavirus ci ha costretti ad una reclusione forzata tra le mura domestiche. Tutti si sono interpellati sul futuro dell’economia, sui problemi delle imprese, ma nessuno ha ragionato sui giovani. Come hai vissuto il lockdown?
Fortunatamente ho lavorato sempre, quindi non ho subito particolari stress. Certo, il sabato in casa era devastante. I miei amici però sono letteralmente impazziti. Penso che questa “reclusione” abbia indotto molti a riflettere sul significato della libertà: è un bene troppo prezioso! Penso anche alla fragilità di molti giovani che fanno fatica a parlare dei propri problemi interiori: per gli introversi immagino sia stato un gran male. Di contro ho scritto tanto, sono a posto fino a Novembre. Gli altri però si sono concentrati su TV, cellulare, social network… In generale la situazione ci ha scosso parecchio, posso confidarti che però è stato bello giocare a carte con mio padre dopo cena. Un’eventuale seconda ondata non sarebbe secondo me sostenibile: i soldi scarseggiano e credo che si scatenerebbe l’inferno nelle città.
Nel tuo pezzo Trappola, citi Striscia la Notizia e Brumotti: cosa non va?
Vabbè, Striscia è un programma satirico e lo prendo come tale, mi dà fastidio però vedere come si buttino a capofitto su servizi d’inchiesta e denuncia che dovrebbero spettare ad altri. Brumotti è un bravissimo ciclista, ma i suoi modi di fare me lo fanno percepire come un personaggio costruito. Lo spaccio di droga esiste ma ci sono le autorità preposte per contrastarlo. In linea di massima è meglio farsi gli affari propri, non mi piace questo modo di ostentare gli scoop. Dovrebbero passare più notizie positive, ed in questo penso che le interviste a noi “emergenti” possano essere un ottimo trampolino di lancio, oltre che una seria apertura nel raccontare le motivazioni che ci spingono a scrivere. La stampa può essere un ottimo mezzo comunicativo se fatta senza pregiudizi e faziosità. Spero che, dopo la mia intervista, possa vederne tante altre.
Ultima domanda, poi giuro che ti mollo. Se dovessi riuscire seriamente a ‘svoltare‘, quale sarebbe la prima cosa che faresti?
Comprerei la casa ai miei genitori.
E la seconda?
Investirei in uno studio discografico serio per dare lavoro a tutti i miei amici, li considero fratelli.
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