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Domenica 24 aprile i Mamutzones di Samugheo presenti a La Spezia

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Domenica 24 aprile i Mamutzones di Samugheo, maschere antropomorfe tipiche del paese della Barbagia del Mandrolisai, sfileranno per il centro di La Spezia per arrivare, alle 16.30, nella Fiera di San Giuseppe.

La fiera di San Giuseppe, le cui origini risalgono al 1654 è una delle tradizioni spezzine più sentite ed uno degli elementi che caratterizza la città insieme al Lungomare, al Museo Navale e al Monumento a Garibaldi.
Dopo uno stop di due anni imposto dalla pandemia, la fiera ritorna dal 22 al 24 aprile a ridosso della Pasqua non nei tradizionali giorni, attorno al 19 marzo, ricorrenza di S. Giuseppe patrono della città.

Saranno una ventina i figuranti che in una città invasa da migliaia di persone in festa vestiranno i panni dei ‘Mamutzones’, di ‘S’Urtzu’ e de ‘Su Omadore’ per farsi largo tra la folla in un’atavica danza ritmata dall’incalzante suono dei campanacci – spiega Roberta Porceddu, responsabile culturale del Circolo sardo- spezzino “Grazia Deledda” – Il contrasto fra le maschere che rievocano culti ancestrali e l’atmosfera di festa che invaderà la città sarà indubbiamente forte. Ma la Fiera di San Giuseppe è un’occasione che non potevamo perdere per far conoscere fuori dall’isola il nostro ineguagliabile patrimonio storico culturale. L’accensione di un falò, alle 16.30, nella centralissima Piazza Cavour, darà inizio alla nostra manifestazione”.

La maschera “de su Mamutzone”

La maschera “de su Mamutzone è una maschera che ha origini antichissime, con il suo rito dionisiaco ripercorre il ciclo della vita stessa. Ovvero vita, inseminazione, morte e rinascita.

Questo è ciò che ci hanno tramandato i nostri anziani del paese di Samugheo – spiega Andrea Macis storico componente dell’associazione culturale “I’ Mamutzones” – Appartenenti ad una cultura agro pastorale, essi eseguivano questo rito dionisiaco la notte di sant’Antonio Abate che da noi a Samugheo si festeggia il 16 gennaio. Il rito si svolgeva intorno al fuoco come segno di buon auspicio per le colture, il bestiame e per tutto quello che riguardava la vita stessa”.

“Le figure della maschera sono tre – continua Macis – La prima è “Su Mamutzone”. È vestita con una mastrucca di pelle di capra lunga sino alle ginocchia, un copricapo fatto in sughero, sormontato con delle corna caprine e rivestito di pelle di capra che prende il nome ” su casiddu “. Sulla schiena porta un grappolo di campanacci che gli avvolgono tutto il busto, usa gambali di cuoio e scarponi pesanti fatti a mano detti “cazzolasa de orroppu”. “Su Mamutzone” porta con sé anche un bastone chiamato “sa mazzola”. Sul viso si spalma della fuliggine ottenuta dal sughero bruciato e bagnato con acqua, in modo da nascondere le sue sembianze.
La seconda figura è quella de “Su Omadore”. Indossa un cappotto di orbace nero con un cappuccio abbassato sul viso, anch’esso annerito dalla fuliggine. Porta pantaloni in velluto, gambali di cuoio e scarponi “cazzolasa de orroppu”. Ha con sé una zucca, lavorata e utilizzata come contenitore, colma di vino. Anche lui è munito di un bastone detto “mazzola”.
La terza figura è quella de “S’Urtzu” che come le altre due ha il viso annerito dalla fuliggine. Indossa una intera pelle di capro, completa della stessa testa del caprone. Ha un grosso campanaccio intorno al collo, dei gambali in pelle di pecora, una pettorina sempre in pelle di pecora, scarponi “cazzollasa de orroppu”  e, alla vita, esibisce una corda in pelle detta “sa soghitta”.
I “Mamutzones così addobbati sono pronti a dare inizio al rito dionisiaco. Esso prevede che “S’Urtzu”, quale anima sacrificale prescelta per il sacrificio a Dionisio, venga tenuto a bada lungo il suo percorso sacrificale da “Su Omadore”. “S’Urtzu” viene accompagnato nel suo percorso dai “Mamutzones” che lo seguono con un passo cadenzato in modo da creare con i campanacci un rumore stringente, unico e forte. Questo rumore serve per tenere lontani gli spiriti del male durante tutto il rito.
“S’Urtzu”, il prescelto, corre all’impazzata cercando di sfuggire a “Su Omadore” che, invece, lo tiene stretto con “sa soghitta”, finché non arriva al punto del sacrificio. Qui i “Mamutzones” lo circondano, girano in senso orario e proseguono a danzare con l’incalzante ritmo cadenzato dai campanacci. “S’Urtzu” giunto al momento sacrificale sceglie tra la folla una giovane donna, la porta con sé al centro del cerchio e simula l’atto sessuale, “l’inseminazione”; dopo di che, lascia andare la donna e cade a terra morto. A questo punto i “Mamutzones” uno ad uno si levano il copricapo (casiddu). Quando tutti lo hanno tolto “Su Omadore” versa davanti a “S’Urtzu” il vino contenuto nella “cruccuriga”. “S’Urtzu” rinasce e torna a correre in mezzo alla folla.
Ha termine così il rito arcaico rappresentante il completo ciclo dell’esistenza: vita, inseminazione, morte e rinascita “.

Fonte: comunicato stampa di Saverio Coghe, presidente dell’associazione culturale “Grazia Deledda” di La Spezia

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