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Beppe Costa: Ospedale psichiatrico, stanza 22, piano terzo

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Siamo arrivati, quella mattina, come al solito, presto: erano circa le dieci. Ma, più del solito, eravamo emozionati, perché Karen era diventata ospite stabile, prima fra gli aventi diritto, del Padiglione A/Unico: indistruttibile, non infiammabile, in una parola: neppure una esplosione nucleare avrebbe potuto distruggerlo. Un padre e una madre, come ancora si usa dire in qualche località del Sud anche del più sperduto Centro e del Nord, sono sempre un padre e una madre e la gioia aveva fatto sì che io avevo dimenticato di mettere l’acqua nel radiatore ed Eva di portare le ultime cose che avrebbe potuto ricevere Karen, da quel giorno, infatti, ogni sua richiesta sarebbe stata esaudita all’interno del Padiglione A/Unico, stanza 22, piano 3°.  Dall’esterno nulla sarebbe più potuto entrare se non noi, una volta al mese e finché nostra figlia avesse voluto. Eravamo quindi un po’ agitati per questi due stupidi fatti, pur con la gioia della notizia contenuta nel telegramma: «Karen Kosta è stata ammessa col massimo del merito e per sempre. Potete venire a trovarla ogni mese a partire dal prossimo sabato. Dio! » Il Direttore non aggiungeva altro, ma, sapevamo da tempo che questa era la notizia per noi più bella, più attesa e che pochi, anzi pochissimi genitori potevano godere di un fatto così immenso.  Col peso di carichi inutili, la paura del motore che ribolliva – forse l’auto già fusa non avrebbe consentito il nostro sereno ritorno – grondanti di sudore per i 40° all’ombra che c’erano in quel momento come, peraltro, in tutti i momenti di quell’estate torrida e infernale in tutto il mondo in quel luglio.

Chiediamo insieme al portiere con voce rauca e stremata:

«Ci indica, per favore, dov’è il Padiglione A/Unico?»

«Non esiste un Padiglione A/Unico» risponde seccato il guardacancelli.

«Come non esiste?»

 lo guardo quasi con supplica.

«Qui non esiste un padiglione con questo nome buffo» si gira verso la stanzetta, esamina o finge di esaminare un foglio appeso in cornice sul muro:

«Esiste, guardi, sta qui un reparto A, Pediatria.»

Mia moglie, più mamma, si sa, di me, gli si avanza con l’aria di mamma napoletana supplichevole e decisa, gentile e minacciosa, sillabando:
«Ci hanno detto proprio Padiglione A/Unico, fai vedere il telegramma.”
«L’ho scordato a casa».

I miei occhi, che vedono già poco nella normalità, si riempiono ancora di più di sudore. Ma lei incalza il guardiano:

«Guardi meglio! A/Unico, ci lavora il prof. straordinario Dr. Klaudio Kundera, psichiatra, da tanti anni, le posso dare anche il telefono di casa.»
Spazientito, ma con voce leggermente più comprensiva, effetto madre di Ottaviano, suburbio Napoli, quale Eva sembrava, il guardacancelli risponde:
«Ma… quello sta dai matti! È il padiglione dopo la ginecologia in fondo al viale centrale, prima della pediatria, dopo le scale, a sinistra, appresso la camera mortuaria. Avete capito?»

Eva mi prende la mano con due dita e mi trascina verso la direzione indicata. Ma dopo la ginecologia c’erano tre, dico tre rampe di scale, al centro, a sinistra e a destra, sembrava il vecchio parlamento italiano, nulla che potesse farle distinguere l’una dall’altra, e senza alcuna indicazione.

Per sicurezza prendiamo quella di centro, magari poi si ricongiungono, nella vecchia ottica delle linee parallele e delle convergenze. La camera mortuaria, in tutto il suo terrore è bene indicata, sopra l’ingresso una bella ed elegante insegna luminosa:

“Camera mortuaria”, la saltiamo di corsa e dopo ottocento metri tutti in salita ci ritroviamo all’ingresso, o all’uscita se volete, dell’ospedale. Il Nosocomio, è bene dirlo, è quello di Frascati, amena località nei dintorni di Roma, il nome, almeno come siciliano, mi rammenta la frasca che viene usata per fare stare in piedi le bottiglie di vino contenuto in bottiglie sottili e fragili e leggere. Altrimenti non si reggerebbero in piedi, chissà… la fanno col ventre rotondo, come anche il fondo. Non so se servono alcune precisazioni in questa parte del racconto ma, per una maggiore comprensione, possono, forse, essere utili per altri genitori fortunati come noi.

«Ma quello non è Pavarotti?» strilla, in domanda, Eva, sollevata alla vista di persona così conosciuta, certa, in cuor suo che tale cittadino del Mondo, può aiutarci nella nostra ricerca.

«Sì, dev’essere lui, è lui! » La seguo sempre più stremato e madido di sudore: «Scusi se ci rivolgiamo a Lei, ma sa dirci dov’è il Padiglione A/Unico?»
«Certamente, miei cari» risponde sicuro con voce affabile e inconfondibile: «tornate indietro e quando trovate tre scale prendete quella a Sinistra. Si giri signora, segua il mio dito, sennò prende quella di destra. Troverete la Camera mortuaria subito dopo, attenti che lo vedete subito.»

«Grazie. Ma, scusi, Lei non è Pavarotti?»

«Lo sono, eccome! Volete un autografo?»

Devo trattenere mia moglie che sta per tornare indietro e tirando di tasca l’unico pezzo di carta, un vecchio pezzo da centomila lire lo porgo all’artista che, contento, noto, lo firma. L’imperdonabile moglie chiede ancora: «Come mai sta qui? Qualche parente, mi dispiace, ammalato?»

«No certo! Assolutamente no! »Il tono è brusco, mezzo soprano e mezzo baritono: «Sono in Lista d’Attesa». Non osiamo aggiungere nulla e riprendiamo a fatica la nostra ricerca: questo terribile posto non ha neppure duecento metri in piano, o si sale o si scende, mi ricorda l’inferno.

Troviamo subito la Camera mortuaria e, meravigliati non poco, all’ingresso c’è Sgarbi Vittorio, in un bel camice bianco anche lui:

«Ciao Vittorio». Era conoscenza di semivecchia data, quando nessuno conosceva lui me invece, non mi conoscono ancora, «sai indicarmi il Padiglione A/Unico?»
 «Certo! Salite costeggiando questa palazzina, a destra, quasi invisibile c’è un viottolo. Sempre a destra, sapete mi viene meglio e per questo mi metto contro il sole, anche se udo, ma al contrario, dovrei dire a sinistra, c’è una scalettina, salite quella, a destra siete arrivati, vedrete l’ingresso. Proprio ora è passata quella vipera di Barbara per vedere se…» si interrompe bruscamente.
Eva ringrazia e corre, il tempo passa e s’è fatto troppo tardi per le visite, mi trattengo incuriosito e chiedo: «Che fai qui? qualche parente?»
Diventa più pallido del solito, la sua voce è brusca come quella di Pavarotti, ma più sibilante e dice la stessa cosa:

«Sono in Lista di Attesa.»

Le istruzioni di Vittorio, come sempre sono utilissime quando si tratta di architettura e arte. Infatti mentre Eva è già arrivata, scorgo il Padiglione nascosto da pini secolari perché infossato così tanto che il tetto sta all’altezza degli ingressi degli altri padiglioni.

Una folla enorme e silenziosa è lì davanti che passeggia nervosamente, molti fumano, forse è scaduto l’orario delle visite. Eva sembra terrorizzata e chiede a chi gli capita:

«E questo il Padiglione A/Unico?»

In coro rispondono tutti:«Sìììììì ! »

Riconosco fra tanti, Zeffirelli, Strehler, Garibaldi, il Cardinal Martini, Pupo, Albertazzi, Sordi, Gassman, Ferrara (Giuliano), Fede, Fava, Abbado, ci sarà un Festival?
«Che fate qui?» chiedo perplesso.Un coro potente e vasto come quello dell’ex Armata Sovietica, risponde: «Siamo in Lista d’Attesa!» Come per magia si spezza in due, mentre io e mia moglie tenendoci per mano, un po’ impauriti passiamo in mezzo. Per un secondo, ma proprio un briciolo di secondo, mi sembro Mosè; ma le nostre mani unite, mentre quelle libere portano gli oggetti, mi ricordano di più una caricatura di Peynet.

Davanti all’ingresso, siamo in pieno film, un omaccione alto, grosso e dall’aspetto cattivo (l’antagonista fisso di Charlot) con la mano aperta a un palmo dalle nostre facce,blocca il nostro avanzare:

«Chi siete?» tuona, forse in modo che la folla possa sentire.

«I genitori di Karen Kosta, ci hanno detto che sta qui…»

L’omaccione diventa Marcel Marceau, elegante e sublime, quasi affascinante; la mano indica con grazia leggera, come non fanno più i vigili urbani, il nostro diritto ad avanzare. Dall’interno, nel grande salone, appare un collega meno poderoso, cui ordina:

«Accompagna i signori al terzo piano, stanza 22, sono i genitori di Karen» poi, rivolto a noi: «Grazie di aver messo al mondo una così perfetta creatura» e, ritornando al proprio posto di custode del Padiglione, di nuovo con voce tonante fa «Loro sì, sì che possono entrare, ne hanno pieno diritto! »
Finalmente siamo davanti alla stanza 22 del terzo piano, la porta è aperta, nostra figlia ci riceve; sicuramente era stata avvertita ed abbraccia prima la madre, lungamente, poi me, com’è d’uso o tradizione.

E bella, alta, bionda e con gli occhi azzurri (per il solito briciolo di secondo penso al Furher, ma passa).

«Venite!» Ci fa strada mostrando il suo piccolo appartamento, ricco di piante. Noto subito il pianoforte a mezza coda che avevo sempre desiderato, prima per me, poi anche per lei. Mi appare molto cresciuta, più alta della sua età sicuramente, ma, confesso, mi appare felice mentre ci racconta la gente meravigliosa che c’è qui dentro:

«Ricordate quanti dispiaceri con quella insegnante d’inglese al liceo, beh, qui è tutta un’altra cosa» continua serena. Ci racconta delle lingue imparate, del maestro di violino, di pianoforte, dell’arpa di Haendel, ha fatto un corso con Edoardo Zapata, lei appassionata tanto di Mozart come unico grande, grazie a Zapata ha incontrato anche Haendel.

È serena, soddisfatta, mi vengono i lacrimoni, penso al sudore, ma poi scopro che sono lacrime vere. Che, insomma, nostra figlia ce l’ha fatta, non è una pupattola, non è artefatta, con dita leggere sfiora il piano, una piccola fuga di Bach, una grande fuga dal mondo. Ogni suo gesto è arte, musica, poesia, sembra amarci più che mai, sembra addirittura una grande madre che spiega ai suoi bambini, noi, come sta bene e come abbia imparato a conoscere Brel, Ferré e Truffaut, Kafka e Flaubert, Moravia e Goethe, Pasolini, Dylan Thomas e Verlaine, Baudelaire e Van Goghe ancora, non finiva mai di raccontarci. Quando, parlando sfiorava Mozart Wolfango Amedeo, così lo chiamava, gli occhi le brillavano splendidamente e, diceva «Ricordi? Papà?» E poi, ci spiegava l’amore e il computer, le religioni e le scienze mediche, l’amicizia e il cinese, e di come la lettura insieme ai suoi insegnanti, del libro “Deviazione” le avesse fatto comprendere la bestialità del razzismo.

Il libro, insieme a tanti altri era sparito dai cataloghi degli editori, che preferiscono stampare spazzatura uccidendo in questo modo la letteratura e gli scrittori.
Sentire la nostra Karen, la sua serena felicità, il suo raccontare con grazia e precisione non ci aveva fatto notare, almeno a me, la differenza della temperatura. Il nostro sudore, la fatica, l’ansia, la macchina con il motore fuso: era tutto sparito. Ci guida attraverso un lungo corridoio, vedo di sfuggita i nomi degli ospiti di alcune stanze Rimbaud, Fellini, Bellini, Pasolini, nulla più mi scompone, finché arriviamo nella grande sala da pranzo.

Il solito secondo di mal pensiero, come quello che ogni mattina viene guardandosi allo specchio e pensando al solito “governo ladro” mi ricorda “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ma non vedevo Nicholson.
Karen ci aveva bloccati al primo tavolo, strette di mano:

«Piacere Beppe Kosta, il papà… »

«Io sono Eva, la mamma… »

«Antonio De Curtis, ma se vuole, può chiamarmi Totò»,

«Ma certo che lo conosciamo…» fa subito Eva contenta,

«Davvero?» risponde meravigliato alquanto Totò: Perché i grandi sono sempre modesti? Penso come al solito, Insieme a Totò, Fellini con sua moglie Masina e Pier Paolo.

Ci invitano a sederci, il clima è sereno. Sono così a loro agio che anche noi non possiamo fare a meno di sentirci come in qualsiasi ristorante romano (senza televisore) e, chiedo, finalmente ad Eva, come stesse, se potevo versarle un po’ di minerale, mentre Fellini diceva:

«Caro Antonio, hai dovuto aspettare un po’ più ma credi, non per colpa tua che sei sempre stato grande, ma quei testi fatti da quelle teste di imbecilli che ti costringevano …»

«Non sempre Federico, non sempre, mi ci divertivo pure… »

«Se ti avessi avuto in mano io, e poi il problema di fondo è sempre quello. Giancarlo Governi quasi ogni Natale fa soldi su dite, dice sempre le stesse cose, le spaccia per scoperte e tutti gli anni gli arriva puntualmente il Babbo Natale.

E’ inutile che stia fuori in lista di attesa, non entrerà mai. »

E così Eva ed io sedevamo ascoltando e mangiando, notammo però che all’ospedale di Frascati non servivano il vino di Frascati. C’erano tante qualità, tranne quello.

Guardai le enormi mensole in alto cercando il Frascati: inutile!
Ecco, così, in quel piccolo, ma completo appartamento di sogno, a quello, il primo di tanti tavoli dove ci eravamo seduti, Eva ed io avevamo capito il nostro sacrificio di genitori, il mio personale di giornalista disubbidiente, di poeta senza le poesie in tasca, di editore non distribuito e mai pagato, di scrittore di una domenica ogni sei, sette anni, contribuivamo a salvare questo mondo corrotto e volgare, brutale ed assassino, ma anche pieno zeppo di vanità e di ignoranza e stracolmo di ambiziosi dove un mare oceanico di imbecilli stava per prendere il sopravvento finale, guidato da quattro o cinque furbi.

Diceva un tale: “un ottimo imbecille è più pericoloso di un efferato omicida”. Forse quel tale aveva ragione. Ma, vorrei aggiungere per i pochi che leggeranno questo racconto, che un finto imbecille è ancora più pericoloso, ma che è terrificante il genio: con assoluta assenza di ideali, col solo scopo del denaro e del successo dice quello che non pensa, agisce come non vorrebbe, dà agli innocenti il carcere e ai corrotti il potere.

Ecco cos’è il Padiglione A/Unico. Una sorta di messaggio già dato da Bradbury in “Farenheit 451” o di ‘Una solitudine troppo rumorosa” di Hrabal che, in sintesi, vuole dire:

«Finché ci sarà una persona che legge, il mondo potrà salvarsi».
Karen sarebbe stata una di loro.

di Beppe Costa

 

Comments (1)

  1. grazie caro Beppe per aver reso fresca e frizzante questa giornata calda ed afosa… mi hai fatto rivivere l’atmosfera dell’O.P. di San Giovanni a Trieste ai tempi del buon Franco Basaglia…

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