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Antonio Marras e la retorica sarda nella collezione Autunno Inverno 2021

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È vero, è passato poco tempo dall’uscita, in diretta streaming, della sfilata di Antonio Marras che, senza indugi, ha svelato al mondo la sua nuova collezione. Forse occorre ancora del tempo per metabolizzare il lancio di questa nuova proiezione sartoriale dello stilista algherese, che tanto ha colpito alcuni, mentre a d altri ha lasciato invece l’amaro in bocca.

Tra questi ci sono anche io, da sempre estimatore di Marras, fin dai tempi in cui raccontava la tradizione per Kenzo, in sintonia con l’artista giapponese e accomunati  dall’insularità e dalla propensione verso un passato da riscrivere per l’uomo moderno, un ricordo al passo coi tempi.

Se da una parte i mix di tessuti e l’azzardo negli accostamenti sono un marchio di fabbrica di Antonio Marras, la composizione scenografica e la cabina di regia hanno appiattito un mondo, una tradizione: la nostra. 

Se dovessimo, per assurdo, cancellare dalla piece scenica i ragazzi che giocano a “sa murra”, inspiegabilmente giocata in italiano e non nella nostra lingua sarda, lo sfondo nuragico e il passaggio di un gregge di pecore, cosa resterebbe della Sardegna? Dove si vede la nostra tradizione?

In questa impalcatura caricaturale della nostra tradizione ho percepito, solamente, una mera speculazione retorica di “sarditudine” buona per essere spacciata ai turisti superficiali, che varcando la soglia della terra dei Lestrigoni (ops, ci sono cascato pure io), bramano incontrare i topoi ancestrali di una tradizione “Cotto & Mangiato”. 

A nulla vale quel modo di accostare fiori e riquadri, quelle giacche maschili sgualcite in linea con il vero Marras, se poi raccontiamo una narrazione turistica fatta di stereotipi, tirati fuori come ami da pesca per catturare più pesci possibili, senza cogliere la vera essenza della grande sartoria nostrana. Nessun richiamo alle mani intrecciate da fili potrà mai restituire Maria Lai se poi veniamo distratti da un gregge di pecore diligenti.

Tutto ciò, più che esaltare un’anima isolana richiama quei pacchetti turistici dai nomi come la “Vera Sardegna”, dove assaggiare il “tipico” pranzo sardo fatto di maialetto o capretto arrostiti come se fosse una quotidianità arcaica, invece che l’eccezione natalizia o pasquale, creando nell’immaginario del turista una finzione di Sardegna lontana dalla verità.

Nella conclusione di una sfilata che doveva analizzare la trama tessile rugosa e spigolosa come il paesaggio sardo, il balletto finale ci ricorda che, per quanto si possa essere geniali (e Marras lo è), sconfinare in ambiti diversi dal proprio rischia poi di inghiottire la propria arte lasciando fuori solo un’immagine da cartolina.

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