È difficile, purtroppo, leggere poesie italiane senza esserne appesantiti per noia e per linguaggio impersonale, omologato nella mediocrità. Con Patrizia Nizzo è tutto diverso, la lettura è una carta assorbente che trattiene le parole allargandosi nella percezione sensoriale, chiedendo asilo fraterno.
Scorrono in una continua offerta di sé che si autoriproduce nella lettura del testo successivo. Questo perché la poesia narrante è una specie di romanzo con tutti i capitoli concatenati, mai staccati dal corpo poetico. Ma è di più. La sensazione è che la Nizzo registri sul momento ciò che ha provocato la poesia, quasi a volerne fare una istantanea, una radiografia interiore. E la sua interiorità è talmente legata al vissuto da essere carnale sempre, fisiologica sempre: è un referto chimico della sua stessa interiorità. Non vuole neanche oltrepassare i limiti di una scrittura di colloquio comunicativo per approdare ad astratte forme chiuse su se stesse.
E’ poesia sincera, non inventata tramite formulette poetiche stantie e obsolete, il suo tentativo riuscito è essere linguaggio da cogliere, testimonianza di un sentire sull’immediato, rifiuto della virtualità snaturante, il ritorno alle radici espressive da condividere con le persone di buona volontà. Volontà di essere ancora umani, di svestirsi in un anelito civilmente selvatico e antitecnocratico.
di Mauro Macario
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