Raramente ci è dato interpretare il motivo conduttore di un testo cominciando dalla copertina. Come accade con le scene iniziali che illustrano l’avvio di una proiezione d’autore, l’opera di Vito Davoli parte dalla riproposizione di una celebre opera di Tiziano, “Amor sacro e amor profano” e di seguito la scritta del titolo “Carne e sangue”, che stigmatizzano, a lettura avvenuta, la stretta funzione tra ispirazione panico-sensuale di un naturalismo intinto di rutilante simbologia sfumato di misticismo e la contaminazione psicologica, carnale, autobiografica dell’Autore ottenuti con il ricorso e la percussione di certe note, di formule quasi rituali aderenti alla simultaneità della materia con la visione poetica.
Da subito si capisce che il poeta adotta una speciale strategia di assedio alla problematica amorosa, all’intensa presenza di un tu indefinito, al ricordo di occasioni vissute, mentre anela a ricongiungersi col tutto, con la proclamazione di questo congiungimento, come se la parola scandita col suono prima che col significato sfuggisse all’essenziale dell’istinto e della riflessione.
“La realtà, scrive Daniele Giancane nella presentazione, non è mai perfettamente incasellabile in un “quadro” o in una “ideologia” o in una “visone” etica”, ed è vero soprattutto negli spunti tematici delle prime poesie, dove l’autore cerca di prendere le misure alle intonazioni sensuali per un bisogno di fedeltà al proprio sentire, alla propria immagine interiore che, unita all’ardore del sentimento, genera nei versi una sorta di discorso rotto e senza sospetto di eleganza che costantemente ci pone di fronte al numero stesso della sua sincerità, della sua inevitabile materia di confessione: “Impaurita s’effonde/nell’arco della vita/ quella nota isolata, /stonata/ la paura/ d’aver paura”. (Aforisma muto)
Si potrebbe anche impegnare un’ambiguità di riferimento, l’oggetto d’amore e l’amore stesso, alla ricerca di carne e sangue all’interno di sé stessi dove l’empito amoroso diverrebbe la prospettiva densa e stratificata di un rapporto speculare, (“Per farmi perdonare/ io ti darò uno specchio…”) che si dilata per risolvere l’impulso impellente verso un traguardo che si rende intangibile e immettervi nuova linfa. Di sicuro non mancano i lieviti di un linguaggio pregnante a tratti analogico, dove tutto il repertorio di formazione classica e di tradizione del Nostro entra in gioco ravvivando la qualità dei lemmi, creando un continuo ricambio fra realtà e memoria: “…La vedo ancora: il mio fantasma è un dramma/generato e nutrito in una farsa. /Miracoli e misteri attorno a lei/non sono valsi a riempire il mio canto/che d’altra carne vibra e d’altro sangue vive. (Carne e sangue)
Per quanto riguarda le scelte espressive queste si evidenziano nell’ambito di schemi e convenzioni secondo tradizione dentro i quali i motivi ritornano e si intrecciano secondo l’urgere dell’ispirazione, non di rado con accostamenti che ne affermano decisamente la cifra personale.
La poesia di Davoli, allora, con le derivazioni e le risonanze dell’immaginazione ha un suo segreto fascino di raffigurazioni e un sottile gusto meditativo che avanzano nello spazio delle parti che compongono il libro a dare più profondi sensi e immagini e visioni toccando risultati vivi e vitali anche nelle prove finali quali “Pesach” (“…Pendono i grani, si torcono gli ulivi”) o “Cantami Sarajevo” (“…Camminerà sulle acque la tua voce/sarà dogma e dogana/ sul sentiero di grida disperate”) o in “Fanno male le braccia” che diventa la summa del paradosso esistenziale e della sua dicibilità: l’ “essere è più del dire, siamo d’accordo. /Ma non dire è talvolta anche non essere” come scriveva autorevolmente Giovanni Giudici.
di Eugenio Nastasi
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