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La lezione di sport della “Giovane Italia” ammutolisce i sudditi di sua Maestà

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Senza facili campanilismi, generati più dalla pancia che non dalla testa, possiamo affermare senza protervia alcuna di aver visto dare, ieri,  in maniera chiara, una lezione di sport agli Inglesi e all’Europa. Perché se saper vincere risulta sempre arduo, saper perdere va oltre: è un’impresa solo dei grandi.

Nel tipico pomeriggio estivo britannico andava in scena, nelle verdi praterie dei campi da tennis di Wimbledon, la finale del torneo tra i più affascinanti, dove l’italiano Matteo Berrettini approdava per la prima volta nell’ultima gara del torneo contro l’uomo dai nervi d’acciaio, Novak Djokovic.

Per quanto il pronostico fosse scritto sulla carta, l’azzurro ha dato battaglia giocando una partita a viso aperto, vincendo il primo set per poi cedere inesorabilmente la partita a chi, sul campo, si è dimostrato superiore. A 25 anni, Berrettini si è presentato alla conferenza stampa finale con il sorriso sulla labbra, conscio di aver perso ma consapevole di aver giocato bene e contro il più forte: “Sono sensazioni incredibili, forse troppe da poter gestire. Anche in questo Novak è stato più bravo di me – ha detto – lui sta scrivendo la storia di questo sport e merita tutto. È stato bellissimo essere qui. Ci voleva solo quel passo in più che è mancato. Mi congratulo con con il team di Novak, in bocca al lupo per tutto”. Lesson n.1 di questa nuova Italia sportiva.

“Non mi giudicate per i miei successi ma per tutte quelle volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi” disse una volta Nelson Mandela, perchè misurare le proprie abilità quando tutto fila liscio potrebbe risultare una facile illusione. Ecco che, nella capitale dello sport per un giorno, Londra, asciugato il sudore della fatica del pomeriggio è arrivata la finale dell’Europeo di Calcio tra Inghilterra ed Italia.

È successo di tutto: dagli scontri pre partita dei soliti Hooligan mai del tutto debellati, al gol inaspettato a soli 2 minuti dal fischio d’inizio che ha proiettato la squadra di casa in vantaggio senza particolari meriti, passando per 120 minuti di sofferenza intervallati dal gol di Bonucci e un possesso palla italiano che avrebbe fatto sgranare gli occhi anche al grande Guardiola. Poi l’epilogo finale, con la lotteria dei rigori che ha visto la nazionale di Roberto Mancini vincere meritatamente partita, finale ed Europeo.

Tutto qui? No, ecco la Lezione n.2. Per settimane i tifosi britannici hanno tediato l’Europa con la litania “it’s coming home” riferito alla Coppa, sentendosi già vincitori. Lo stesso Primo Ministro Johnson nelle interviste dava quasi per scontato il ritorno a casa di una coppa mai vinta (e questo la dice lunga sulla questione). Insomma, secondo una nazione intera era già tutto deciso prima ancora di potersi tuffare (I’m sorry mr. Sterling) sul campo di battaglia, con l’inno di Mameli coperto dai fischi di quelli che, per antonomasia, si sono sempre beati del loro aplomb britannico.

Alla fine, quello che resta, è la vittoria di una nazionale giovane, quella italiana, che ha fatto della coesione umana e tattica il punto di forza, rimettendo in carreggiata una partita che pareva persa giocando un buon calcio, onorando questo sport (non il business che gravita intorno) nella patria del calcio. Mentre uno ad uno i calciatori inglesi strappavano la medaglia del secondo posto come fosse un cancro da estirpare, davanti agli occhi di milioni di persone si consumava la peggiore sconfitta del Regno Unito.

Essere sportivi solo quando si vince è la mortificazione dello sport stesso, è lo stato di mediocrità di chi sa accettare le cose come sono solo quando, queste, volgono proprio favore. Tutto questo succedeva a pochi passi dall’immagine simbolo dello sport, iconica quanto l’urlo di Tardelli nell’82. L’abbraccio tra le lacrime dei due fratelli del gol, Mancini e Vialli, intenso e umano, in barba al covid e ai disvalori mostrati dagli inglesi. Erano in campo nel 1992 quando persero a Wembley la Coppa dei Campioni, erano in campo ieri per trasformare una amara sconfitta in una vittoria condivisa.

La dedica finale di Mancini, al suo vecchio presidente ai tempi della Sampdoria, Mantovani, ha il sapore della maturità, della memoria, non della vendetta da consumarsi. I fratelli d’Italia, questa volta, hanno zittito i leoni della Regina.

 

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