Cultura

Beppe Costa: Sylvie e gli occhi smarriti

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  Avrei potuto non guardarla? Impedire agli occhi di correre e percorrere la sua figura, lo spazio che occupava? Avrei forse fatto bene a non svegliarmi quel giorno – sono incontri così, strani se vogliono apparire. – Niente faceva supporre la sua apparizione in quella determinata ora, giorno, via, città – nessuna manifestazione d’alcun genere – eppure passò proprio a poche decine di centimetri. 

  Per rendere qualcosa – anche se incredibile e poco probabile, comunque inimmaginabile – era di quelle che si usavano una volta e che oggi si usano solo in qualche film o mostra fotografica – indossava un viso ovale offuscato di una rada patina d’antichità, non pensate coperto da ciprie o cose del genere (che non so neppure descrivere per colossale ignoranza nel settore e non voglio assolutamente documentarmi in altri romanzi, non v’è simile) né giù, scendendo, come s’usa fare con sfrontatezza maschile, vi fossero merletti od altro di appariscente o decorativo.

  Guardavo senza riuscire a comprendere da dove venisse quell’aria e non crediate neppure che questo personaggio potesse in qualche modo ricordarmi le donne di Poe, di Lovecraft o di Balzac, affatto! Sebbene vi scoprissi l’infelicità, quell’aria – non c’era altra soluzione – era dovuta all’infelicità dolce che sicuramente si celava nella sua anima (ammessa tale presenza) nutrendola sin da piccola. Ma di che tipo potesse trattarsi continuo a chiedermelo mentre scrivo.

Avrei potuto scoprirlo parlandone con qualcuno, forse ma, il timore che questi se ne potesse in alcun modo innamorare, me lo ha impedito fin qui, è appunto, scrivendo – sono convinto del libero evolversi dei miei pensieri sulla carta (la faccenda del subconscio) – cerco di scoprire cos’è che distingue un pezzo antico dal moderno, quale sia il tocco che rende due prodotti simili nella forma e diversissimi nella sostanza: una donna da una ‘donna’.

Nel pensare adesso all’amore che potrebbe suscitare, data la poca disponibilità a questo sentimento, per le cambiate strategie dei corteggiamenti che, sarebbero: ‘che famo’, ce stai annà ar letto? mi sento terribilmente bloccato dal timore di un rifiuto ed è per questo che grazie alla disponibilità di un giornale che sembra dire: andiamo ajò noas! io vado. 

Potrei pregarvi di leggere comunque il resto col distacco che usate nel guardare la tivvù o con la superiorità che ci spinge a vedere l’ultimo film di Fellini o ancora meglio con quella leggerezza che ostentiamo nell’utilizzare i carrelli dei supermercati facendo la spesa. Solo così posso avere la certezza che rimaniate immuni dal fascino che – scordavo di dirvi – ha suscitato in me la vista della donna… come possiamo chiamarla, un nome non comune, opterei già per Sylvie, lasciando la non comunità nell’ultima vocale: e, eh! 

    Dunque Silvie passò a pochi metri da me, andando per la sua strada (che fosse sua è molto improbabile, però da come i passanti le facevano spazio, non impossibile). Non che il suo andare fosse maestoso, tutt’altro, nessuna presunzione, andava, seppur dritta, con andatura abbastanza modesta: un passo lento dopo uno ancora più lento. Così chele curve facevano un giro molto lento e, per vederla tutta bastava immaginare le rotonde lombarde con quindici uscite che, alla sesta perdi l’orientamento, così ritorni da dov’eri partito, accorgendoti solo all’arrivo: io invece dovetti lasciare la mia di strada, costretto dall’accadimento emotivo ad usare la sua. Andai dubbioso all’inizio, poi, sempre più deciso, a ogni passo convincendomi che quella era l’idea da seguire.

Non si fermò mai! Ero fermamente convinto che prima o dopo entrasse in qualche negozio o almeno si fermasse a guardarne le vetrine, oppure che quest’idea venisse all’altra donna al suo fianco (probabile madre di cotanto splendore o no? cosa c’è di certo?) a volte dietro a meno d’un metro, non trascurando mai tale distanza. Era pattuito? 

    Io timido lo sono per natura, tant’è che mi decido solo ora, dopo tanti anni a parlarne, non potendo più sostenere tale terribile condizione di attesa che mi ha impedito d’ammogliarmi, avere figli, amanti e quant’altro è dovuto a un uomo nel fiore degli anni e del vigore.

Camminarono tutto il giorno, con me sempre dietro d’un passo. Talora avanzavo, superandole di qualche metro, poi tornavo indietro, la guardavo fisso negli occhi: verdi, opachi, in burrasca e poi calmi e ancora, feroci. 

   Tornai sfinito dopo che furono entrate in un palazzo enorme, con grandi balconi, di stile gotico. Non l’avevo mai notato prima un palazzo così nella mia città e in quella strada piena di ville liberty. Andai fino in fondo alla strada, due o trecento metri, come si fa a misurare, data l’enorme emozione che travolgeva tutti contenuti del mio corpo, anima inclusa? Tornato indietro non riuscii più a individuare il portone: stava destra o a sinistra? la mia incertezza era simile allo stato confusionale che travolgeva le politiche di destra e di sinistra di tutta Europa e non solo.

   Al centro (non intendo del parlamento) non poteva sorgere alcun palazzo, non avevo svoltato alcun angolo, non c’era alcun dubbio: era svanito! Lei e il palazzo!

Potete immaginare come diverse ore dopo rientrai a casa, distrutto, stanco, avvilito, ma ripromettendomi l’indomani di percorrere lo stesso tragitto fino alla scomparsa della mia Sylvie. Sentii subito la necessità di lavarmi, di togliermi il sudore e la tristezza di dosso, di dimenticare, semmai ripensarci dopo, con calma, a letto, nel buio, quando non si prende sonno e, a lungo si riflette sugli accadimenti del giorno trascorso e sui propositi per l’indomani. Un colpo al cuore, come si dice. 

   Nel guardarmi allo specchio mi sentii gelare: quegli occhi verdi, opachi, in burrasca e poi calmi e, ancora, feroci avevano sostituito i miei. 

  Come avrei fatto? come potevo andare in giro così senza essere notato, come mi sarei presentato al lavoro, agli amici, a mia madre? Ho provato e riprovato a guardarmi allo specchio, ho usato la camomilla e il collirio. 

Ho dovuto cambiare casa, città, regione. Sono qui rinchiuso da diversi anni. Non esco più. Mille tentativi per far svanire l’infelicità da questi occhi. Niente. Mi rimane soltanto di sperare che qualcuno, leggendo questa mia disavventura possa, dall’esterno, aiutarmi a ritrovare la mia serenità, il mio sguardo ironico e talvolta felice. Ma soprattutto i miei occhi.

   Se avete notizie telefonate, vi prego, al +0039-63663166 col prefisso per chi chiama da fuori Roma.

di Beppe Costa

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