Trovare l’America, era un detto che per anni accompagnò gli italiani, stanchi e oppressi dalla crisi economica, alla ricerca di una svolta nella propria vita, anche solo sognando quell’America vista come la terra delle grandi opportunità. Voglia di riscatto e fascino verso un paese, seppur filtrato dai film e da un po’ di retorica post bellica, percepito come un luogo dove tutto era possibile. Stiamo parlando, ovviamente, degli Stati Uniti d’America. Il fenomeno dell’immigrazione degli italiani all’estero non è solo una questione recente, se pensiamo che fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti 4 milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di varcare l’oceano. Questo fenomeno proseguì negli anni, con l’alternarsi di cittadini provenienti dal settentrione ma soprattutto dal meridione, luogo fortemente devastato dalla Grande Guerra.
Gli Stati Uniti aprirono le porte all’immigrazione nel pieno dell’avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l’America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa, per tale motivo (ma non solo) milioni di persone preferirono attraversare l’Oceano. Questo spiega in parte il fenomeno, anche perché negli anni successivi al secondo dopo guerra, divenne più restrittivo poter varcare le porte di una delle città simbolo di quel continente: New York. Ne sanno qualcosa gli emigrati che, dopo il pittoresco saluto della Statua della Libertà, vivevano il trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente quelli effettuati ad Ellis Island, chiamata anche l’Isola delle Lacrime.
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” diceva Marcel Proust, ed io, nel mio viaggio lungo la Grande Mela, ho concesso ai miei occhi di essere liberi di vedere e cogliere non solo grattacieli e taxi gialli, ma una fetta di umanità che è la vera essenza della metropoli.
Al mio rientro in Sardegna è nato quindi il desiderio di raccontare una storia legata a quel fenomeno migratorio che, solo oggi, decido di pubblicare: una storia di emigrati italiani, una famiglia di Carbonia di origini abruzzesi, trasferitisi nell’ultimo dopo guerra proprio nel Sulcis Iglesiente, dove restano ancora tanti ricordi d’infanzia e amici. Per ragioni economiche e nutrendo un desiderio di riscatto per la famiglia, Nicola Turchi insieme alla moglie Anna Maria Pellicciotti, decisero di trasferirsi a New York portando con se i loro figli: Domenico, Mario, Pietro, Consalvo, Umberto, Carmine, Enrico e Tonino – quest’ultimo nato proprio a New York –. Sarto di professione, appassionato di calcio e ciclismo, Nicola ebbe modo di lavorare a Carbonia rimboccandosi le maniche per mantenere la propria famiglia ma, dopo il boom economico, l’attività di sarto venne via via minata dall’introduzione sul mercato degli abiti confezionati: già pronti e più economici, anche se ben lontani dalla raffinatezza sartoriale.
Con un mercato che lasciò solo le briciole al signor Turchi e a tanti come lui (tra questi mio nonno, amico fraterno di Nicola Turchi) decise di intraprendere un viaggio (della speranza) di ben 8 giorni di navigazione, per giungere negli Stati Uniti nel 1956. Lì, a fare da garante, c’era la sorella di Nicola, dal momento che le leggi sull’immigrazione iniziavano ad essere più rigide, era necessario avere qualcuno già cittadino americano per facilitare le pratiche. Due anni dopo aver ripreso con l’attività sartoriale, trovato una casa per tutti nell’allora italianissimo borough newyorkese di Brooklyn (o “Broccolino”, come gli italo-americani chiamavano maccheronicamente il quartiere), fece arrivare il resto della famiglia in quella che sarebbe stata la loro nuova patria: correva l’anno 1958.
Così, in una fresca sera d’Agosto, a cena in un italianissimo ristorante di Staten Island, ho potuto godere dei bellissimi momenti con tutti i fratelli Turchi riuniti (per l’occasione) allo stesso tavolo: perché si sa, noi italiani a tavola ragioniamo meglio e ricordiamo di più. È mancato non poter incontrare Domenico e Mario, perché non sono più tra noi, ed Umberto, che conobbi a Carbonia in uno dei suoi ultimi viaggi insieme alla moglie Rina, anche lui passato a miglior vita.
Tra risate, aneddoti, vino rosso – rigorosamente Montepulciano d’Abruzzo – e fotografie di famiglia, ho avvertito, in certi casi, la sensazione di essere in un film di Scorsese o Coppola. Con il sottofondo di canzoni italiane eseguite da un cantante italoamericano, ho immaginato quella scena molto cinematografica di Nicola Turchi, seduto sulle scale davanti all’abitazione di Brooklyn, mentre si intratteneva con altri connazionali di passaggio, scambiandosi saluti, cibo, favori (fatti realmente accaduti), come in un qualsiasi vicinato italiano degli ani ‘60: quel senso di comunità tutto nostro non poteva cambiare nemmeno oltreoceano! Così come, attorno ad un tavolo, ho sentito quel senso di famiglia e familiarità trasmesso da persone semplici, sincere, la cui generosità è insita nel loro dna, che hanno lasciato in me quel sentimento tipico dei pranzi di Natale quando tutta la famiglia si riunisce per festeggiare.
Tra un bicchiere e l’altro ho scoperto che Consalvo (nato a Gessopalena, Chieti), sposato con Meryl e parrucchiere di professione, appassionatissimo di calcio, aveva fatto carriera nella federazione arbitri di calcio di New York, divenendo responsabile degli arbitri statunitensi per il mondiale Usa ’94. Pietro, invece, sposato con Suzanne, è stato nella USA Army come paracadutista, con un turno di servizio in Korea. Laureato poi in discipline economiche, ha lavorato come revisore dei conti per diversi ospedali diventando anche CFO (Chief Financial Officer). Carmine, invece, ex veterano del Vietnam, ha lavorato per una compagnia di telefoni per alcuni anni (grazie alla quale ha conosciuto sua moglie Patricia), per poi diventare sindacalista fino alla pensione: oggi si dedica al golf e ai nipoti (che hanno tutti nomi italiani!).
Tonino – ormai per tutti Tony – il più giovane, sposato con June, dopo avermi mostrato la pergamena di laurea in Medicina del bisnonno, firmata proprio dal re Vittorio Emanuele II e datata 1874, oltre a cavarsela meglio con l’italiano e con il dialetto abruzzese, era il “cantastorie” dei diversi aneddoti di mio nonno insieme a suo padre Nicola. Per la cronaca, Tony è l’unico che ha il bidet nel bagno di casa (orgogliosamente mostrato!) e ci ha accolto in casa con un aperitivo a base di prodotti tipici italiani. Enrico, invece, sposato con Adriana, nonno di 5 nipotini, da giovanissimo iniziò la sua carriera lavorativa come barbiere, divenendo poi un cuoco, terminando la sua carriera come chef in un ristorante italiano a 4 stelle. Dei fratelli è quello che abita più lontano, ma non poteva mancare alla reunion organizzata da Carmine per incontrare me e la mia compagna.
Al di là di quello che sono ora o hanno fatto, è quel senso di famiglia così radicato e così italiano che mi ha colpito profondamente: tra aneddoti sulla famiglia (tra figli e nipoti sono almeno un centinaio di persone!), le prese in giro tra fratelli, la voglia di ricordare Carbonia e gli amici lasciati con cui riescono a sentirsi ogni tanto (l’amicizia è per sempre); si percepisce sempre il ricordo delle serate nella cittadina mineraria quando tutto era semplice e genuino. Con loro, che sono una parte della mia famiglia allargata, ho potuto apprezzare sentimenti sinceri come quello di sentirsi a casa seppur nella caotica New York, o essere uno di loro come avrebbero voluto i nostri vecchi.
La storia della famiglia Turchi, partita dal Sulcis con la valigia carica di sogni poi realizzati, è la storia agrodolce di chi parte lasciando tutto ma portandosi dietro valori e tanti ricordi. Sarebbe importante, anche per le generazioni future, che la mia città, Carbonia, potesse creare un luogo figlio dell’immigrazione dal resto d’Italia, uno spazio dedicato al ricordo di chi è arrivato e di chi è partito, un “non luogo” dove trasmettere ai posteri le storie come quelle della famiglia Turchi o di tante altre famiglie giunte in città per trovare, appunto, l’America. Perché ora abbiamo bisogno di costruire ponti col passato, per non creare muri nel futuro.
Sono la figlia grande di Umberto turchi. La prima nipote femmina dopo 8 figli maschi e un nipote maschio ( primogenito dello zio Domenico). io invece primogenita di mio padre Umberto turchi e prima nipote femmina per i nonni. Dopodiché tanti nipoti e pronipoti. bellissimo ciò che ha scritto! Complimenti!