Gli anni 90 sono stati anni particolari per l’Italia, anni di grossi cambiamenti e soprattutto di sconvolgimenti politico-sociali che hanno segnato un giro di boa per la storia della repubblica. Quando sembrava essersi lasciati alle spalle i cosiddetti anni di piombo e il periodo stragista, ecco che il nostro paese subisce un forte scossone da portare poi, a quella che sarebbe stata etichettata come la “Seconda Repubblica”. Il 27 Luglio del 1993, a distanza di un anno dalle stragi di Falcone e Borsellino che piegarono l’opinione pubblica e alcuni apparati dello stato, ci ritroviamo a constatare nuovamente la debolezza di una nazione colpita ancora una volta proprio quando sembrava ci fossero i presupposti per riprendere in mano la situazione.
Due mesi dopo la strage di via dei Georgofili nel centro storico di Firenze, quel 27 Luglio venne ricordato per il succedersi di altri tre attentati esplosivi accaduti a Milano e a Roma. Il primo attentato a Milano, siamo nelle vicinanze del Padiglione d’Arte Contemporanea e da poco era passata la mezzanotte quando, due persone mai identificate (un uomo e una donna bionda) ma presenti in diverse testimonianze, fermarono una pattuglia dei vigili Urbani per avvisarli della presenza di fumo fuoriuscire da un’auto parcheggiata a pochi metri da loro. Il fumo arrivava infatti da una miccia accesa che innescava quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno che nell’esplosione, provocò una strage. Alla fine saranno cinque i morti, compreso uno dei vigili. Quella sera successero altri due attentati di simile matrice, a Roma, in piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Quel giorno venne ricordato come il momento più buio della storia repubblicana, tre esplosioni nel cuore dell’Italia e nelle due città simbolo della nazione, vite umane distrutte e un messaggio a tinte chiaroscure lanciato agli apparati dello stato.
L’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, ebbe la sensazione si trattasse di un tentativo di Golpe, dal momento che nella notte tra il 27 e il 28 Lugio di venticinque anni fa, per l’eccezionalità degli avvenimenti, un fatto inquietante aveva colpito direttamente l’apparato istituzionale: un “inspiegabile” blackout delle linee telefoniche di Palazzo Chigi che impedirono lo stesso Presidente del Consiglio di comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un evento mai verificatosi prima di allora che ancora oggi nessuno ha spiegato. Le parole dello stesso Ciampi, interrogato dalla magistratura, ricordano le fasi convulse di quei momenti, quando convocò addirittura il Consiglio della Difesa, di comune accordo con il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. In quel conciliabolo delle più alte cariche dello stato e militari vennero a galla alcune ipotesi tra cui quella, alla fine più veritiera, scaturita dal pensiero dell’allora capo della Polizia di stato Vincenzo Parisi: “matrice mafiosa”. La mafia aveva alzato il tiro, aveva superato i confini della Sicilia per dare un segnale di forza, un atto intimidatorio che sarebbe servito a incanalare la politica regionale e nazionale verso i progetti di Cosa Nostra e dei Corleonesi. Siamo nel periodo della trattativa Stato-Mafia, mai definita e mai accertata, anche se numerose ricostruzioni arrivate attraverso i collaboratori di giustizia spiegarono quei legami tra i corleonesi ed “apparati esterni” alla cupola, vicini allo stato. In un paese scosso dallo scandalo di Tangentopoli, quelle bombe assestarono un ulteriore colpo all’Italia ed ebbero una risonanza internazionale, nel tentativo di destabilizzare le istituzioni democratiche. Quelle bombe, quegli attentati, erano una sorta di avviso, come il collaboratore Spatuzza raccontò durante uno dei tanti processi, aggiungendo alla fine parole che fecero tremare i polsi: “le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane.. Garantiamo che saranno a centinaia”.
Dopo un quarto di secolo restano ancora molti vuoti, tasselli mancanti di un mosaico mai concluso, il racconto di un lasso di tempo in cui l’Italia ebbe grossi buchi nella politica nazionale che la mafia, e non solo, cercarono di occupare; certamente in funzione di alcuni cambiamenti inerenti il grande lavoro del pool antimafia siciliano e l’approvazione del reato di mafia e il carcere duro per i mafiosi, il 41bis. Tra i tanti misteri lasciati in sospeso, legati da un filo sottile a quel 27 Luglio, c’è l’episodio dell’autobomba nel Gennaio 1994 e il mistero della mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma. Per fortuna, il telecomando si inceppò e la strage di forze dell’ordine in servizio fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista che, per le modalità e gli obiettivi, avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese dovette pagare ad una strategia i cui mandanti restano in parte nascosti, i nonostante i risultati significativi delle indagini si fermino sempre ad un punto morto.
Il 1993 resterà impresso nella memoria collettiva come l’anno che trasformò il paese, quello che ricorderemo anche per lo scandalo delle tangenti, il suicido di Cagliari e Gardini, il lancio delle monetine a Bettino Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael e quello spregevole gioco al massacro a cui con colpevole ritardo rispose Scalfaro con “io non ci sto”, a reti unificate.
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